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Storia della Provincia di Torino
La venuta dei Missionari a Torino (1655)

La presenza dei Preti della Missione a Torino risale al 1655. Allora il Piemonte apparteneva al ducato dei Savoia, ed in questo ducato, nella parte che allora si trovava al di là delle Alpi, i missionari di san Vincenzo erano già arrivati fin dal 1639. Precisamente ad Annecy, nella diocesi di Ginevra. Qui grazie alla generosità del commendatore de Sillery e sotto la protezione di santa Francesca Frémiot de Chantal, i missionari con il loro primo superiore Bernardo Codoing si dedicarono alle missioni popolari e diressero un seminario. Il vescovo di Ginevra, Giusto Guérin, scriveva di loro a san Vincenzo nel 1640 poco dopo il loro arrivo:

Tutti li amano, sono loro affezionati e unanimemente li lodano. Ne hanno ben ragione, Padre: la loro dottrina e il loro modo di conversare sono santi. Con la loro vita irreprensibile offrono a tutti un esempio edificante. Quando finiscono una missione in un villaggio, partono per raggiungerne un altro, e il popolo li accompagna con lacrime e pianti, dicendo: “Buon Dio, come faremo adesso? I nostri buoni padri vanno via”, e per molti giorni vanno ancora a trovarli nei villaggi vicini. Ho visto persone di altre diocesi venire fin qui per confessarsi da loro e mirabili conversioni che avvengono per merito loro. Il superiore ha grandi doni da Dio e un meraviglioso zelo per la sua gloria e la salute delle anime. Egli predica con grande fervore e con ottimi risultati.

Al di qua delle alpi, a Roma, i missionari erano giunti assai prima, nel 1631, con un procuratore, Francesco du Coudray, incaricato di ottenere l’approvazione della Congregazione presso la Santa Sede. La preoccupazione di san Vincenzo era di collegare la sua comunità con il centro della cristianità, per cui aveva persino pensato di trasferirvi la casa generalizia. Se accantonò il progetto fu per difficoltà esterne. Nel 1640 Luigi Lebreton fu inviato come nuovo procuratore con lo scopo di ottenere l’approvazione della normativa sui voti che apparivano strani per una comunità che si definiva costituita da sacerdoti non religiosi. Egli tuttavia non si limitò a questo, ma incoraggiato da san Vincenzo, diede inizio ad un’attività missionaria predicando, con alcuni sacerdoti del posto, le missioni nell’agro romano. Quest’attività prese a consolidarsi e ad allargarsi nella cura del clero quando, nel 1642, si costituì la prima comunità formata dai padri Bernardo Codoing, Riccardo Germain e dal giovane chierico Giovanni Martin.

Qualche anno più tardi, nel 1645, su richiesta del cardinal Durazzo, i missionari si insediarono anche a Genova. Vi arrivò padre Stefano Blatiron, con quattro preti e un fratello coadiutore. Nei primi mesi del 1646 li raggiunse anche Giovanni Martin, che a malincuore il superiore di Roma aveva lasciato partire. Ed anche qui i missionari si misero in luce per le loro opere principali. Si occupavano delle missioni popolari, dei ritiri agli ordinandi, delle conferenze agli ecclesiastici.

In pochi anni, la Congregazione si era fatta conoscere per la sua duttilità missionaria. Messasi a disposizione dei vescovi per attuare la riforma tridentina presso i presbiteri ed il popolo, veniva apprezzata e ricercata. Fu per questa ragione che ne venne chiesto l’insediamento anche a Torino.

Il contesto religioso e politico del Piemonte all'epoca dell'arrivo dei Preti della Missione

Nella prima metà del Seicento in Piemonte e, in modo particolare a Torino, si erano insediati numerosi istituti religiosi, sia maschili che femminili: gli agostiniani, i barnabiti, i carmelitani, i minimi, i teatini, gli oratoriani di san Filippo Neri, le carmelitane, le clarisse cappuccine e le agostiniane. La madre del marchese di Pianezza, donna Matilde di Savoia, aveva fondato in Torino il monastero della Visitazione (1638), alla cui inaugurazione fu presente anche santa Francesca Frémiot de Chantal. In seguito, attraverso varie vicende storiche, diventerà dal 1830 la sede dei missionari di san Vincenzo, e lo è tuttora.

Questi nuovi insediamenti si inseriscono nel progetto controriformistico del periodo della reggenza di Madama Cristina, sostenuto in particolare da Carlo Emanuele Filiberto Giacinto di Simiane, marchese di Pianezza (1608-1677), ministro dello Stato Sabaudo. In particolare, la venuta a Torino dei missionari cade nello stesso anno (1655) del grave episodio di repressione contro i valdesi, passato alla storia sotto il nome di Pasque Piemontesi. I protestanti valdesi, che risiedevano soprattutto nelle valli ad ovest di Torino, erano in quel periodo collegati con il mondo riformato del Nord e ricevevano denaro ed aiuti. A partire dal 1653 si erano moltiplicati gli episodi di intolleranza verso i cattolici: distruzioni di chiese, cacciata di missionari, beffe nei confronti del culto cattolico. Nella pasqua del 1655 ci fu una repressione con le truppe regolari comandate dal marchese di Pianezza contro i rivoltosi valdesi con molte uccisioni, saccheggi, arresti ed esili. La presenza dei missionari, che giunsero nel novembre di quello stesso anno, avrebbe dovuto, nel progetto dei duchi di Savoia, favorire attraverso la predicazione delle missioni una riforma che impedisse l’attecchire dell’eresia presso il popolo. Tanto più che aleggiava il timore che, dalla vicina Francia, si diffondesse anche il giansenismo presso la nobiltà. In realtà i missionari non furono inviati a predicare nelle valli valdesi se non dopo il 1686, quando con decreto ducale fu limitata la libertà della religione riformata.

Al di là di questa coincidenza, il bisogno di una riforma della Chiesa nel ducato sabaudo era una necessità. Il degrado del tessuto cristiano presso il popolo ed il clero è stato descritto dal nunzio apostolico, Alessandro Crescenzi (1607-1688), nel tempo della sua delegazione a Torino. Egli denunciò in particolare che molti a causa dell’insicurezza dei tempi, travagliati da guerre e da varie calamità, si rifugiavano nello stato ecclesiastico, bramandovi un reddito tranquillo più che donarsi alla missione sacerdotale. Il che faceva sì che molti presbiteri e religiosi vivessero da libertini, attirando le odiose critiche dei protestanti che accusavano la Chiesa di essere viziosa. Non sempre a torto, visto che le denunce di vari vescovi dell’epoca mostravano un vera decadenza nel clero. Il vescovo di Saluzzo, Agostino della Chiesa, nei sinodi diocesani raccomandava ai preti di non prendere parte ai balli pubblici e di avere in casa almeno la Bibbia, il breviario, un libro di casistica, e di non portare armi in chiesa.
 

Pianta di Torino nel '600

 
   
Ed il vescovo di Mondovì era giunto a proibire a tutti gli ecclesiastici di avere con sé pistole, fucili, carabine ed altre armi proibite agli stessi secolari.

 Nelle intenzioni dei principi sabaudi la presenza di una comunità dedita all’evangelizzazione, come era quella dei Preti della Missione, avrebbe potuto favorire anche il risanamento delle lotte che, dalla nobiltà, si erano diffuse tra la gente, e cioè le lotte tra i partiti dei Madamisti e Principisti. In una biografia manoscritta su Giovanni Martin, risalente alla fine del ‘600, leggiamo:

“Le guerre civili tra i principi di casa Savoia erano passate anche nei sudditi, che assuefatti da molti anni alle armi, le maneggiavano facilmente l’uno contro l’altro in modo che le inimicizie particolari passavano a tutto il luogo ed avevano apparenze di guerra civile piuttosto che d’inimicizie private, tante erano le uccisioni e tale la disunione dei popoli”.

I Madamisti prendevano il nome da Madama Reale, la duchessa Maria Cristina di Borbone, sorella di Luigi XIII, sposa di Vittorio Amedeo. Alla morte del marito venne riconosciuta come tutrice e reggente del figlio primogenito Francesco Giacinto, ma questi pochi anni dopo, nel 1638, morì ancora in minore età. Madama Cristina ritenne di essere in diritto di continuare la reggenza verso il secondogenito, Carlo Emanuele II (1634-1675), ma i fratelli di Vittorio Amedeo, il principe Tommaso e il cardinal Maurizio, glielo contestarono ponendo un problema di successione. Essi erano popolari assai più della loro cognata, ed intrigarono mostrando le loro simpatie verso la Spagna col rivolgersi al governatore di Milano. Madama Cristina per le sue origini era naturalmente legata alla Francia, ma non sopportava che il cardinal Richelieu le imponesse una politica di totale sudditanza col chiederle persino che le truppe francesi occupassero a difesa le roccaforti del regno sabaudo. Il risultato fu che i suoi cognati s’impossessarono del Piemonte, e il principe Tommaso nell’aprile del 1639 intraprese persino l’assedio di Torino. La duchessa si ritirò nella cittadella e per necessità ed a malincuore dovette consegnarsi ai soccorsi francesi.

La guerra civile, chiamata Fronda Piemontese, dilagò propagandosi a tutti i livelli della società dividendola per molto tempo in due partiti, i filofrancesi (o Madamisti) e i filospagnoli (o Principisti). La divisione non fu così netta, perché non c’era ideale per appartenere all’uno o all’altro dei partiti, ma più sovente a decidere l’appartenenza erano le ambizioni o le probabilità di benefici o guadagni, che ne sarebbero derivati.

“La reggente per mantenere il suo potere aveva bisogno di alleati; pertanto concedeva ai suoi sostenitori titoli, uffici, cariche e, con forte aggravio sull’erario pubblico, esenzioni dai tributi, pensioni, regalie. Queste contribuivano da un lato a creare avversioni, odi, rancori, che per molto tempo ancora si sarebbero accese ad ogni minimo pretesto con violenze uccisioni e vendette”.

Non fa dunque meraviglia che nella citata biografia di Giovanni Martin, il capitolo VII sia totalmente dedicato all’opera di “riconciliazioni di inimicizie fatte nel Piemonte”. E questa di fatto fu una delle maggiori attività meritorie dei missionari con la predicazione delle missioni.

In conclusione, alla casa reale impegnata in una politica filofrancese ed antispagnola, faceva comodo l’insediamento di una comunità di origine francese, poiché avrebbe assicurato una garanzia di fedeltà per le autorità sabaude. Si noti che il superiore della Casa della Missione di Torino fu un francese fino al 1684.

Gli inizi della Casa della Missione a Torino

La prima volta che si parla della possibilità di costituire la Congregazione della Missione a Torino risale al 3 luglio 1654. San Vincenzo scrive a padre Tommaso Berthe, superiore a Roma, informandolo di essere “profondamente grato a questo buon ecclesiastico del Piemonte per il desiderio da lui mostrato di vedere fondata la nostra Compagnia a Torino”. Il “buon ecclesiastico” avrebbe voluto che fosse san Vincenzo a proporsi per iniziare la fondazione, ma san Vincenzo era profondamente contrario ad anticipare la Provvidenza.

“Lei sa che è nostro criterio non proporci mai in un luogo se non vi siamo chiamati. E a chi dicesse che dovremmo farlo in questa circostanza perché apriremmo una porta per far avanzare la gloria di Dio in quella regione, rispondo che dobbiamo pensare il contrario e sperare che Dio sia maggiormente onorato dalla nostra sottomissione alla sua Provvidenza, aspettando i suoi ordini, piuttosto che tentare di prevenirli”.

La cosa sarebbe caduta nel nulla, come ci informa una lettera del 31 dicembre 1654, scritta a Padre Blatiron, se “il signor marchese di Pianezza, presidente del Consiglio di Sua Altezza Reale di Savoia” non avesse fatto esplicita richiesta di due missionari per fare una fondazione a Torino. 
 
  Il Marchese di Pianezza
 
In contemporanea, ci informa la stessa lettera, il primo presidente del Senato di Chambéry, Janus de Oncieu, evidentemente sollecitato dal fantasioso e intrallazzone superiore di Annecy, Achille Le Vazeux, si faceva interprete della prima domanda del marchese aumentando il numero dei missionari richiesti: non più due, ma sei, per officiare la chiesa del Corpus Domini lasciata vacante nel 1654 dai preti dell’Oratorio di san Filippo Neri. La cosa non era chiara a san Vincenzo, soprattutto per questa seconda richiesta, poiché egli non voleva assolutamente che l’assunzione di una chiesa in città diventasse di ostacolo per la predicazione in campagna. Per questo, chiede a padre Blatiron di intraprendere un viaggio da Genova a Torino e “chiedere informazioni soprattutto al signor Tévenot, chirurgo di Sua Altezza Reale, che è assai nostro amico”. Nel caso che non lo trovasse, si doveva rivolgere direttamente al marchese e spiegargli che è condizione necessaria per la Compagnia, nel fare una fondazione, avere la possibilità di fare le missioni e, nel caso che i vescovi lo chiedano, di istituire esercizi per gli ordinandi. Le trattative andavano per le lunghe per l’insistenza del marchese perché i missionari predicassero e confessassero anche in città. Al che, il 4 maggio 1655, san Vincenzo scrisse al marchese di “non poter accettare quella clausola introdotta nel trattato di fondazione”. Il 19 ottobre di quello stesso anno, quando ormai san Vincenzo poteva comunicare al marchese di Pianezza l’arrivo di quattro preti, aggiungeva un’altra clausola: “che i missionari non fossero assolutamente impiegati nell’assistenza alle religiose, perché da ciò ne sarebbero derivati gravi impedimenti per l’evangelizzazione della povera gente della campagna”. Ed aggiungeva che “egli avrebbe visto molti difetti in questi missionari”, ma supplicava il marchese di “avere pazienza con loro e di correggerli delle loro mancanze”.

I prescelti furono: Giovanni Martin, superiore della comunità; il padre Gian Giacomo Planchamp, che era cecuziente, se non del tutto cieco; Pietro Deheaume; Giovanni Ennery e il fratello coadiutore Aubin Gautier. Giunsero a Torino il 10 novembre 1655. Qualche giorno prima, il 22 ottobre, san Vincenzo aveva esultato perché finalmente era arrivato il breve papale che approvava i voti della Congregazione.

Furono accolti “molto amabilmente” dall’arcivescovo, mons. Giulio Cesare Bergera, dal nunzio apostolico a Torino, mons. Alessandro Crescenzi, e dal marchese di Pianezza, Giacinto di Simiane, che li ospitò in casa sua, nel palazzo Martinengo, in piazza Castello tra le attuali via Roma e via Viotti. Poi, in attesa dell’acquisto o della costruzione di una casa, presero in affitto un appartamento in casa del signor Autbony. Il marchese si accollò le spese per allestire la casa ed il mantenimento dei padri. Intanto per dare stabilità alla fondazione in modo che i missionari potessero dare gratuitamente le missioni, dotò la casa della Missione di un fondo di seimila scudi d’oro, come risulta dall’atto notarile di fondazione firmato il 10 gennaio 1656, affinché da questa casa “come dal centro del Piemonte potessero con ogni comodità portarsi alle ville et campagne per impiegarsi alla salute delle anime con li santi esercizi del loro istituto”.

"Questa fondazione farà progressi se sarà fondata sull'amore alla propria abiezione"

Appena arrivati i missionari non stettero con le mani in mano. Subito iniziarono a predicare missioni. La prima predicazione fu nel contado di Pianezza, già dal novembre 1655 al 3 gennaio 1656, dove fondarono anche la prima “Carità” in Piemonte. La grande difficoltà incontrata era la lingua, perché l’unico missionario italiano Giovanni Battista Taone, che era stato destinato a Torino fu dirottato su Viterbo, e del nucleo iniziale solo Padre Martin conosceva bene la lingua italiana. Fu giocoforza cominciare l’attività solo con alcune iniziative missionarie senza poter realizzare tutto il programma di una missione completa. Padre Martin, reduce dalle missioni fatte nel ducato di Genova con grandi successi, avrebbe desiderato cominciare alla grande. Chiese una lettera di raccomandazione al card. Durazzo perché presentasse le opere della congregazione all’arcivescovo di Torino; e si rivolse a padre Blatiron a Genova perché gli concedesse padre Richard che ormai era un missionario esperto. Ma san Vincenzo bloccò queste sue iniziative, poiché le vedeva poco consone con lo spirito dell’adesione della volontà di Dio.

Dal libro delle Relazioni sulle Missioni risulta che le predicazioni dei missionari si allargarono subito a macchia d’olio: a Pecetto (16 gennaio 1656), a Villastellone (13 febbraio), a Scalenghe (12 marzo), a Cavour (17 maggio), a Barge-Villafranca (28 ottobre), a Racconigi (17 dicembre). E così via: a Castelnuovo, Savigliano, Bra, Sanfré, Cavallermaggiore, Fossano, Carignano, Cervere, Villanova Mondovì, Bricherasio, Cherasco, Cirié, Rivarolo, Cocconato, Poirino … Nei primi vent’anni anni della presenza dei missionari in Piemonte, cioè fino alla morte del marchese di Pianezza, avvenuta nel 1677, furono predicate 120 missioni.

I missionari restarono senza una casa propria in Torino per sette anni. In questi anni si cercò una soluzione stabile. Già nel 1656 Madama Reale, attraverso il ministro Bellezia, ritornò ad avanzare il progetto che i missionari si stabilissero nella chiesa del Corpus Domini e ne assumessero l’officiatura, indotta probabilmente anche dal fatto che le prime missioni fecero subito scalpore per il modo con cui venivano incentrate sulla fede nell’Eucaristia, attraverso l’esortazione alla comunione frequente, con le numerosissime comunioni generali e con le solenni processioni eucaristiche che le chiudevano. San Vincenzo si mostrò disponibile alla sola condizione che ciò potesse essere utile per istituire un seminario o i ritiri degli ordinandi. Tuttavia chiese a padre Martin di non spingere in favore di questa soluzione:

“Se la proposta va avanti, me ne scriva i particolari, con tutti i pro e i contro, e io le comunicherò il mio pensiero. Dobbiamo accogliere con rispetto tutto ciò che Dio ci presenta, e poi esaminare le cose con tutte le circostanze, per fare ciò che è più opportuno”.

E quando qualche mese più tardi padre Martin si mostra dispiaciuto perché non sente più parlare della promessa fatta dal marchese della nuova sistemazione, san Vincenzo gli scrive:

“Se non le dicono più niente delle case dove si è pensato di darvi una dimora stabile, non si deve meravigliare; perché se è Dio che ve ne destina una, la cosa si farà a suo tempo (le opere di Dio si fanno in tempi lunghi!); se invece Lui non ve ne destina nessuna, non bisogna desiderarla, ma stare con pazienza nel luogo in cui siete, la cui povertà ben s’addice alla nostra vocazione. E sicuramente vi sarà vantaggiosa, se amerete questa circostanza per amore di Nostro Signore, che era povero e non aveva una pietra dove posare il capo”.

Vennero studiate varie soluzioni prima di arrivare alla conclusione. Nel 1657, essendosi predicata una fruttuosa missione a Savigliano nella chiesa di San Pietro, retta dai padri benedettini, venne proposta l’apertura di una casa come Seminario o Collegio Teologico, ed in seguito il marchese di Pianezza propose anche di traslocarvi la stessa casa di Torino. San Vincenzo non si mostrò contrario, purché ci si attenesse alla regola di non confessare né predicare in città. Questa condizione però, continuamente reiterata nel susseguirsi di lettere tra padre Martin e san Vincenzo, risultò contraria ai desideri dei saviglianesi, sicché il progetto si arenò. La stessa cosa avvenne per Fossano, l’anno successivo. Ed a vuoto andò pure l’unione con il priorato di Saint-Joire.

Nel 1658 stava per arrivare a conclusione un’altra possibilità di sistemazione definitiva: l’acquisizione del complesso abbaziale di Sant’Antonio di Ranverso, posto tra Rivoli e Avigliana, la cui consistenza terriera superava le mille giornate. Proprietari erano gli Antoniani, la cui casa madre si trovava a Vienne nel Delfinato. Essi avevano pure una chiesa con monastero dedicati a sant’Antonio in Torino. Ma in quel tempo vi dimoravano sul posto soltanto tre monaci, “i quali – dice il Cibrario – non furono i più segnalati né per merito di dottrina, né per merito di santità”. Madama Reale intendeva sottrarre l’abbazia a questi monaci e consegnarla ai missionari, in modo che potessero avere “comodità … di mantenere un buon numero di operai e di farvi in essa il seminario”. I progetti della duchessa trovarono non solo l’opposizione degli Antoniani, ma anche della corona francese, in particolare del Mazzarino che non gradiva l’ingerenza di Madama Reale in una questione dove erano coinvolti dei francesi. In una lettera, san Vincenzo rivela a padre Martin che era andato da lui il vicario generale di Sant’Antonio per lamentarsi della vicenda di Ranverso. Al che san Vincenzo disse:

“Gli ho detto semplicemente che avevo sentito parlare di quest’affare … ma che i missionari di Torino non si sarebbero immischiati in questa vicenda. Nello stesso tempo però non avremmo potuto opporci a ciò che le autorità sovrane avrebbero stimato vantaggioso fare per il bene del loro stato”.

Il vicario ha anche aggiunto che “il re di Francia ha fatto altre volte con un duca di Savoia un trattato di pace, in cui è detto che Sua Altezza Reale non poteva staccare i benefici del suo stato che dipendevano da Saint-Antoine Viennois, di cui il re è protettore, senza il suo consenso; e disse che sperano di impedire il progetto con questo mezzo”. In effetti gli Antoniani vi riuscirono e continuarono a restare nei loro possedimenti e rendite, finché il loro ordine non fu abolito nel 1776 dalla Santa Sede ed i beni uniti all’Ordine Mauriziano.

Finalmente in casa propria (1662 - 1667)

Il marchese di Pianezza non si rassegnò al fallimento delle trattative intorno a Sant’Antonio. Così, continuamente sollecitato dal fatto che san Vincenzo ripeteva che i missionari non dovessero predicare e confessare nelle città con sede vescovile, pensò di costruire una piccola chiesa con annesse alcune camere, in campagna, fuori delle mura cittadine . Informato della cosa, san Vincenzo scrisse a padre Martin:

“Bisogna lodare Dio della buona volontà e dell’apprezzabile ostinazione con cui il signor marchese cerca di darvi una stabile dimora. Dio alla fine ascolterà le sue premure ed i suoi meriti. Pare che la volontà di Dio si manifesterà attraverso di lui. Tuttavia, padre, pare che, andando ad abitare così staccati dalla città, vi mettiate fuori condizione per poter aprire un seminario ed occuparvi delle ordinazioni, a cui pure dovete puntare, perché presto o tardi, con l’aiuto di Dio, la sua Provvidenza vi chiamerà a quest’opera”.

L’idea del marchese si arenò. Ma contemporaneamente si aprì una nuova possibilità. Uno dei sacerdoti che si era affiancato ai missionari nella predicazione delle missioni, Marco Aurelio Rorengo dei conti di Luserna, detto Priore delle Valli Valdesi, maturò il disegno di venire incontro al loro desiderio di avere una casa in Torino. Egli si auspicava che i missionari potessero aumentare in modo da poter formare due squadre di missione e, nello stesso tempo, poter iniziare un seminario e un convitto ecclesiastico. A tale scopo propose a Carlo Emanuele II e a Madama Reale di sopprimere la sua parrocchia dedicata ai Santi Stefano e Gregorio, destinando le 1700 anime di cui era composta alle parrocchie vicine (situate intorno al terzo isolato di via Garibaldi) e darne le proprietà e le rendite ai Preti della Missione. La cosa fu accolta e inoltrata presso il Papa Alessandro VII, che aveva sempre mostrato grande stima verso i missionari. Con il Breve Apostolico del 28 settembre 1662, i missionari venivano immessi nel beneficio con le relative rendite, ed autorizzati a permutare la cascina, detta della “Crocetta”, che faceva parte del beneficio parrocchiale, con un orto appartenente alla famiglia dei conti Broglia, situato appena fuori le mura della città. Questo orto era assai spazioso ed adatto per la costruzione di una casa che avesse lo scopo di accogliere chierici ed ecclesiastici. Era chiuso da una cinta. A ovest era adiacente con la piazza della Cittadella (ora piazza Solferino), a sud con via dei Bastioni (ora via Arcivescovado), a est con la via delle Cappuccine (ora via Arsenale) e a nord con via San Carlo (ora via Alfieri). Sull’angolo di queste due ultime vi era il palazzo dei Conti Broglia. Una volta ottenute le debite autorizzazioni, i missionari si trovarono in difficoltà poiché gli eredi Broglia non accettarono più la permuta del loro orto con la cascina della “Crocetta”. Per non perdere l’occasione favorevole i missionari decisero di mettere all’asta la cascina. Non trovarono però acquirenti, perché la proprietà era gravata da troppi vincoli. Attingendo allora al capitale di fondazione e servendosi di quattromila ducatoni, ricevuti in dono in parte da Madama Cristina e in parte dal marchese di Pianezza, acquistarono metà dell’orto ed iniziarono la costruzione. La prima pietra fu posta dal marchese. Per concludere i lavori vendettero la cascina “Crocetta” allo stesso impresario, Gio. Batta Ruffino, che aveva anticipato del suo per la costruzione. L’edificio fu terminato nel 1667 ed i missionari ne presero subito possesso. Era costituito da 35 camere, cosicché poterono dar vita al Convitto ecclesiastico. Ben presto il numero dei seminaristi occupò tutto lo stabile, al punto che si dovette affittare un’altra casa vicina per ospitarli tutti. Insieme ai seminaristi si istituì la Conferenza del Martedì ed una Scuola di Cerimonie per ecclesiastici che si faceva al giovedì. Il Priore Rorengo, che aveva dato il suo beneficio per la costituzione della casa, si ritirò presso i missionari fra i quali morì il 13 aprile 1676. Fin dal 1660 anche l’altro grande benefattore, il marchese di Pianezza, fu accolto a vivere con i missionari fino alla sua morte, avvenuta nel 1677.

A servizio del clero

Grazie all’elargizione di mille ducati da parte del duca Carlo Emanuele II, nel giugno del 1673, l’arcivescovo Michele Beggiamo pose la prima pietra per la costruzione di una nuova Chiesa. Fu dedicata, prima in Torino, all’Immacolata Concezione. Per la sua costruzione ci vollero 22 anni: fu terminata nel 1695 e subito si iniziò ad officiarla dall’8 dicembre di quell’anno. La sua consacrazione avvenne due anni dopo ad opera del nunzio apostolico, mons. Alessandro Sforza. Assai prima, per la generosità di alcuni benefattori, tra cui il prevosto del Capitolo metropolitano Ignazio Carroccio di Villarfocchiardo e la marchesa Caluso Gabriella Mesmes di Marolles, si potè invece allargare la casa per rispondere alle richieste del clero.

“La casa dei missionari si presentava assai grande e capace. Oltre i saloni ed altri vani aveva 160 stanze da letto, ed oltre i convittori riceveva gran numero di esercitanti (almeno un centinaio contemporaneamente) … ed aveva un vasto giardino senza soggezione”.

La casa della Missione di Torino, grazie al suo Convitto ecclesiastico, divenne un punto di riferimento per il clero grazie soprattutto a padre Antonio Vacchetta (1665-1747), che collaborando con altri ecclesiastici torinesi svolse un’importante azione per la formazione del clero. Fra questi sono da ricordare l’arcivescovo Michele Antonio Vibò (1690-1713) e il beato Sebastiano Valfré degli Oratoriani (1629-1710). Nel Convitto della Missione i candidati al sacerdozio e i sacerdoti già ordinati venivano istruiti soprattutto nella Teologia Morale, nelle Sacre Cerimonie, nel canto, sui doveri del proprio stato, in modo da essere pastoralmente preparati. Vi partecipavano i chierici che non potevano o non volevano chiudersi nel seminario diocesano. Vi si tenevano pure corsi di Esercizi Spirituali, sia per il clero, sia per i laici. Qui ad opera di padre Giovanni Antonio Vacchetta si iniziò nel 1720 la celebre Novena del Natale con il canto delle profezie, che, grazie alle missioni si diffuse in tutto il Piemonte e la Liguria in modo così ampio che ancora oggi è in uso.

Vittorio Amedeo II diceva: “Quando vedo passare gli ecclesiastici per la città, so subito dire: quel tale è convittore della Missione”. Oltre al padre Vacchetta un altro stimato Prete della Missione fu Giovanni Maino (1657-1728), predicatore di missioni e poi, dal 1696 fino al 1710, superiore della casa di Torino; Vittorio Amedeo II lo volle tra i precettori dei suoi due figli. Altre belle figure di missionari furono Gian Luigi Bolla (1662-1738), grande predicatore di missioni e visitatore; Alessio Revelli (1719-1788); G. Cesare Blanchi (1692-1773); e Carlo Guasco (1701-1775), apprezzato per l’opera in favore del clero.

Nella casa di Torino, grazie all’interessamento e alle donazioni della marchesa di Caluso, si era tentato all’inizio del ‘700 di trasferire il seminario interno della Provincia, che si trovava allora a Genova. Vi si riuscì soltanto nel 1745, sotto il generalato di Padre Couty, che nominò direttore padre Pessiardi Filippo di Savigliano, ritenuto da molti un santo missionario. Questo fatto urtò il visitatore Raimondo Rezasco che tentò di far recedere il padre generale dal sua decisione. Nell’assemblea generale del 1747, il nuovo superiore generale sciolse la questione: a Torino non si sarebbero potuti accogliere più di sette novizi; se ce ne fossero stati in sovrabbondanza avrebbero dovuto essere dirottati a Genova o a Roma. Frattanto nel 1741 i corsi di teologia erano già stati trasferiti da Ferrara a Torino. E nel 1748, si trasferirono da Genova anche i corsi di filosofia. Così a metà ‘700 fu unificata tutta la formazione degli studenti della Provincia a Torino. L’unione dei due noviziati, di Genova e Torino, avvenne definitivamente soltanto dopo la restaurazione nel 1829.

I missionari della casa di Torino in campo dogmatico erano di indirizzo tomista: la loro comunità “fu uno dei cenacoli sacerdotali torinesi più avversi all’indirizzo religioso dei gesuiti”, e cioè oppositori del probabilismo e del molinismo. In campo morale infatti erano di tendenza probabiliorista, ossia quel sistema di morale sorto in chiave antilassista che sosteneva, nel dubbio tra la liceità e l’illiceità di un’azione, di doversi scegliere quell’azione che aveva maggiore grado di probabilità. Nella lettera pastorale del 1768 il vescovo Francesco Rorengo di Rorà indicava alcuni autori di morale da seguire; fra questi vi era il vincenziano Pietro Collet (1693-1770) autore delle Institutiones Theologicae, fatte stampare a Torino dai preti della Missione a diversi intervalli di tempo. Nel Sinodo Diocesano di Torino, celebrato nel 1788, furono ben 7 i membri della Congregazione della Missione che furono invitati perché esprimevano l’orientamento riformista, a differenza di altri ordini come i domenicani, che “pur essendo più numerosi ebbero solo 3 rappresentanti, perché più conservatori e legati alla corrente curialista romana”. Per la loro condotta irreprensibile i missionari furono apprezzati e rispettati anche dagli ambienti giansenisti, ma non scesero a patti con il loro rigorismo: lo testimonia il fatto che i giansenisti li contrastavano per quanto riguardava l’ammissione del popolo alla comunione generale, perché ritenevano che la preparazione richiesta dai missionari fosse troppo sommaria ed insufficiente.

A contatto con il popolo per l'evangelizzazione

Il principale scopo della presenza dei Preti della Missione nelle terre sabaude fu la missione al popolo. La tradizione vincenziana di conservare le notizie di ogni missione su un quaderno di appunti ha lasciato negli archivi della Casa della Missione tre grossi volumi manoscritti con la descrizione dettagliata dell’andamento di tutte le missioni predicate fino al 1800. Su questo materiale d’archivio L. Nuovo ha potuto ricostruire contesti, tematiche, realizzazioni, problemi e contrasti delle missioni popolari vincenziane. Da questa tesi possiamo trarne una sintesi.

In totale i missionari predicarono negli Stati Sabaudi più di 1660 missioni in 561 luoghi diversi. In alcune città vennero predicate missioni con un ritmo metodico. A scansione decennale furono predicate missioni ad Alba, Bagnasco, Benevagienna, Bra, Busca, Cherasco, Entracque, Fossano, Frabosa, Limone, Mondovì, Montanera, Pianezza, Poirino, Vicoforte, Villanova di Mondovì.

Fino al 1730, anno in cui venne formata per la prima volta la terza squadra di missione, i missionari si facevano aiutare da alcuni sacerdoti diocesani, per lo più convittori della Casa della Missione di Torino.

La predicazione missionaria si può suddividere in quattro periodi.

Dal 1655 al 1675 è la fase in cui i missionari esperimentano i loro metodi di predicazione adattandola alle popolazioni. E’ il periodo in cui prevale la componente francese della squadra di missione.

Dal 1676 al 1740 è l’epoca di maggiore splendore; sia per l’aumento delle squadre di missione; sia perché il convitto ecclesiastico con l’opera degli esercizi spirituali portò il clero ad apprezzare i metodi molto semplici ed efficaci dei missionari; sia perché tra il 1729, anno della beatificazione, e il 1737, anno della canonizzazione di san Vincenzo, ci fu un particolare fervore nel rivivere il carisma fondativo.

Dal 1740 al 1770 è il periodo di cristallizzazione dell’esperienza missionaria: non vi sono grandi novità né dal punto di vista del metodo né dei risultati.

Dal 1770 al 1800 con l’espandersi del pensiero illuminista e della critica razionalista alla religione, si assiste al declino delle missioni, sia per l’incapacità dei missionari di cogliere i segni del cambiamento culturale, sia per la mancanza di missionari di spicco.

In generale si può dire che l’operato dei missionari fu assai apprezzato, soprattutto per la modalità semplice ed immediata con cui essi si porgevano al popolo e al clero (“con dignità e modestia nelle loro funzioni e nell’assiduo esercizio della predicazione e dei santi ritiri”: diceva Vittorio Amedeo III). Questa stima è dimostrata dal fatto che nel ‘700 si aprirono altre Case della Missione in Piemonte: Casale (1708), Mondovì (1776), Voghera (1787), ciascuna delle quali aveva una squadra di missione.

Nei primi tempi, la predicazione ebbe un carattere marcatamente controriformistico, funzionando come argine di contenimento dell’influsso valdese e come mezzo di pacificazione sociale e privata. Nel corso del ‘700 acquistò un orientamento maggiormente catechetico e formativo, anche se interpretato, sulla scìa della cultura teologica del tempo, in chiave moralistica più che kerigmatica. I mali che i missionari cercarono sempre di sradicare erano: la frequenza delle osterie dove il gioco e il bere procuravano divisioni familiari e perdite in denaro; gli sponsali protratti per diversi anni; gli odi e i rancori tra famiglie; le vendette e l’usura; i giochi e i balli in occasione delle feste e del carnevale. In genere le missioni contribuirono a dare alla pratica religiosa popolare un nuovo vigore, favorendo il rapporto tra il clero e la gente.

Tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 la zona maggiormente evangelizzata fu quella di Fossano e Mondovì. Nella seconda metà del ‘700, in particolare tra il 1750 e il 1760, la zona privilegiata dalla predicazione missionaria fu il Canavese, soprattutto grazie alla sollecitudine pastorale del card. Delle Lanze che aveva giurisdizione vescovile sulle terre dell’abbazia di San Benigno. Il monregalese fu una zona particolarmente tumultuosa: rivolte, faide, vendette erano frequenti, favorite dal porto abusivo di armi. Bande rivali si scontravano. L’autorità centrale era poco rispettata. Il contrabbando con il genovesato era una pratica diffusa. I missionari svolsero ovunque opera di rappacificazione nei conflitti sociali. E con la creazione delle “Compagnie della Carità” introdussero nelle popolazioni l’idea della solidarietà e della condivisione.

Nelle relazioni i missionari usavano alcuni aggettivi per indicare il grado di partecipazione e di riuscita: molto fervente, fervente, discreta, mediocre, fredda. Di qualche missione si dice che iniziò freddamente, ma che poi “si accese” o “si riscaldò”. La maggior parte delle missioni ebbe generalmente una buona riuscita, ma non mancarono quelle passate tra il rifiuto e l’indifferenza. L’atteggiamento dei parroci nei confronti della missione fu nella maggior parte dei casi favorevole, anzi molti di loro ne furono i promotori. Diversamente quando avevano accettato controvoglia la missione facevano resistenza: si rifiutavano di aprire le porte della chiesa al primo mattino o alla sera tardi; non permettevano che si spostassero i banchi in chiesa quando c’era grande afflusso per la comunione generale; qualcuno si assentava durante la missione. I missionari si sentivano più al sicuro quando la missione era concordata tra vescovo, parroco, feudatario e comunità: ma questo capitava raramente. I missionari predicavano in italiano, ma dove questo non era molto compreso, almeno alcune prediche venivano fatte in dialetto. Nelle Relazioni non si mette troppo in evidenza il freddo che in certi inverni e in certi luoghi i missionari dovettero subire, ma alcuni morirono in missione come padre Orazio a Busca (1686); il ventinovenne padre Clerici a Entracque (1735), ove fu sepolto sotto il pulpito. E per concludere con una nota umoristica, nel 1780 a Racconigi i missionari scrivono che al loro arrivo “non furono molto imbrogliati dalla calca nel riceverli, perché non si vide per così dire persona!” Concludono però con il dire che la riuscita finale fu buona. Al contrario a Sordevolo (1679) venivano dai paesi vicini “in file così unite che propriamente da lontano sembravano strisce di formiche” e a Carmagnola (1681) “l’udienza stava nella Chiesa colma come sardelle nel barile ristretta, grondando tutti sudore e bisognando, se alcuno sveniva, trasportarlo sopra la testa della calca!”.

Passaggio ai Santi Martiri (1776) e prima soppressione

I missionari restarono nella casa da loro costruita fino al 1776, quando il primo segretario agli interni, il conte Carlo Ignazio Corte, propose a Vittorio Amedeo III di affidare loro la chiesa dei Santi Martiri, sita in via Garibaldi, con l’annesso collegio lasciati vacanti con la soppressione della Compagnia di Gesù ad opera di Clemente XIV nel 1773.

“Che cos’era successo? L’arcivescovo di Torino, Francesco Luserna Rorengo (1768-1778), non avendo una sede propria, alloggiava nel Palazzo Reale, creando non pochi disagi per la vita e le feste di Corte. Sicché il re aspettava un’occasione propizia ed elegante per disfarsi di quella presenza. La soppressione dei gesuiti fu l’occasione buona”. Il re chiamò il superiore dei missionari, padre Michele Laugeri, e gli notificò la sua intenzione. A nulla valsero le osservazioni, le resistenze e neanche i buoni uffici del card. Carlo Vittorio Amedeo delle Lanze, amico e protettore dei missionari. Vittorio Amedeo III rimase fermo sulla sua decisione, per cui i missionari il 31 ottobre del 1776 dovettero traslocare, portando con sé le memorie più care. L’antica casa fu trasformata, parte in arcivescovado e parte in caserma militare.

Il trasferimento ai Santi Martiri non diminuì, ma aumentò il lavoro, poiché ai missionari venne offerta molta predicazione che prima veniva fatta dai gesuiti. Gli studenti di teologia e filosofia, poiché gli spazi ai Santi Maritiri erano insufficienti, emigrarono a Mondovì, dove il re aveva messo a loro disposizione le proprietà dei gesuiti: il Collegio in Piazza Maggiore e La Vignola come casa per esercizi spirituali.

Di questo periodo vi è un fatto particolare merita di essere ricordato. La rivoluzione francese iniziò con il saccheggio della casa di San Lazzaro a Parigi. I rivoluzionari depredarono la casa, ma lasciarono intatte le reliquie di san Vincenzo, il cui corpo era deposto in un’urna d’argento ed il cuore rinchiuso in un reliquiario donato dalla duchessa d’Aiguillon, la nipote del card. Richelieu e grande benefattrice delle opere di carità di san Vincenzo. Allora era assistente generale e direttore delle Figlie della Carità, padre Domenico Siccardi, nativo di Frabosa di Mondovì. Alla vista della furia rivoluzionaria il padre generale, Cayla de la Garde, fece trafugare l’urna con il corpo. Il reliquiario con il cuore invece fu affidato a padre Siccardi perché lo portasse al sicuro a Torino, nascondendolo in una cavità a forma di cuore ricavata nel secondo volume della Vie des Saints di Fr. Grey. Rimase a Torino e a Mondovì dal 1792 al 1805. Finita la rivoluzione, la reliquia fu riportata in Francia, ma a Torino rimasero altre memorie di san Vincenzo: i suoi abiti, indumenti personali ed un centinaio di lettere.

La permanenza ai Santi Martiri non fu lunga. Il 25 gennaio 1799, in seguito all’arrivo dei francesi e all’allontanamento di Carlo Emanuele IV, il Governo Provvisorio Repubblicano emanò un decreto di espulsione dei Preti della Missione dalla loro casa da farsi entro dieci giorni. Il superiore, padre Laugeri, morì di crepacuore; lo sostituì padre Scarabelli. Gli studenti furono dispersi: fra questi vi era Felice De Andreis, nativo di Demonte, che nel 1816 partirà per gli Stati Uniti per impiantare la Congregazione a Saint-Louis. I missionari assenti furono avvertiti e sospesero la loro predicazione. In fretta e furia poterono ritirarsi o in abitazioni private o in altre case della Missione.

Questa prima soppressione durò fino a giugno di quell’anno, quindi solo pochi mesi, cioè fino a quando il generale Alessandro Suvarov al comando delle truppe austro-russe conquistò Torino. I missionari poterono allora rientrare e svolgere le funzioni abituali. Quando però alcuni mesi dopo Napoleone con le truppe francesi occupò a sua volta Torino, i missionari furono nuovamente soppressi e dispersi, il 3 dicembre 1800, e questa volta fino alla Restaurazione.

La rifondazione della Comunità a Torino dopo la rivoluzione (1821)

Con la caduta di Napoleone, nel 1814, si cominciò il ristabilimento delle case della Missione in Italia del nord. Le prime case riaperte furono quelle della Liguria, e cioè di Genova, Savona e Sarzana. Quelle di Sanremo, Pavia e Voghera restarono soppresse definitivamente. Per la casa di Torino tutto rimase fermo fino al 1821.

“La causa precipua ne erano i missionari medesimi, che si ostinavano a voler nuovamente i Santi Martiri, benché non in numero sufficiente a servirla, e di grande svantaggio allo spirito primitivo del nostro Istituto”.

Nel 1821 P. Luigi Pio Scarabelli, allora Visitatore della Provincia (lo stesso anno fu nominato vescovo di Sarzana), per mezzo del confessore di Vittorio Emanuele I, abate Botta, ottenne il ristabilimento della Congregazione a Torino con decreto del 13 febbraio di quell’anno. I primi missionari andarono ad abitare all’inizio di aprile in una casa in affitto in via Arcivescovado.

“Si stabilì che si darebbe ai nostri la casa di Mondovì, un ospizio (o casa) a Torino, e un’altra casa da determinarsi in seguito. Questa fu quella di Casale che fu data nel 1823. In adempimento dell’accordo, il padre Baccari, allora vicario generale della Congregazione d’Italia, a nome del Pontefice Pio VII, inviò padre Giordana, in qualità di commissario del Piemonte e di superiore della casa di Torino. Se ne venne da Genova con padre Giuseppe Martinengo, che lasciò superiore a Mondovì, ove morì nel 1835 con generale rammarico di quella città, che ammirava la sua prudenza ugualmente alla sua pietà”.

Il 25 marzo 1823 il governo di Torino consegnò ai missionari una parte del convento delle Carmelitane Scalze. Da qui avrebbero dovuto officiare la chiesa di Santa Cristina. Poiché questa casa non era adatta, essendo in gran parte occupata dai Lavori Pubblici, i missionari l’affittarono e, per se stessi, Padre Gastaldi affittò un’appartamento nel palazzo Costa, contrada dei Conciatori.

“Intanto il seminario interno aperto a Mondovì, potè fornire giovani a rimpiazzo dei vecchi o malati: cosicché per divina bontà cominciarono le nostre funzioni. Padre Giordana riusciva con plauso negli esercizi spirituali, e il suo zelo gli faceva cogliere ogni occasione propizia per darli. Gli altri applicavansi più comunemente alle sante Missioni, ma niuna delle tre case del Piemonte potea fare squadra intiera: laonde unironsi per molto tempo soggetti di tutti e tre, cioè Torino, Mondovì, Casale. L’anno 1825 si ritornò ad affidar ai nostri le conferenze ecclesiastiche domenicali dei chierici sparsi nella città. Sul bel principio ci venivano quanti vestivano da ecclesiastici , abbenché poco vogliosi di fare il prete, non aspirando che a prendere il magistero delle scuole. Questa turba poco disciplinata e poco docile, che ascendeva sino al numero di 400, diede non piccolo disturbo ai nostri conferenzisti, ma dal 1833 si obbligavano ad intervenire i soli chierici di filosofia e di teologia. Questo specialmente avvenne dopo che si stabilirono le conferenze nella nostra cappella interna”.

Attorno a padre Giordana si riaggregò un gruppetto di confratelli: Lucio, Prato, Craveri, Ormezzano. In casa Costa rimasero quattro anni, finché si trasferirono in casa Mazzetti, prospiciente la piazza San Carlo, da dove officiavano sempre Santa Cristina. Vi rimasero fino al 1830, anno in cui padre Giordana morì, mentre predicava gli esercizi alle suore di Rivarolo. Il suo corpo, inumato nel sepolcreto sotto la chiesa di San Michele, fu trovato incorrotto nel 1880. Rimase scoperto per oltre 10 anni e finalmente racchiuso in una nuova cassa fu murato nella cripta.

I
n quello stesso anno, il 1830, i missionari riuscirono ad acquistare l’ex-monastero della Visitazione. Come i missionari vi arrivarono è raccontato così dal nostro manoscritto:

“Accadde che il signor Le Clerc, il quale in società con altri aveva grossa fabbrica di panni nel monastero della Visitazione, che era già stato delle visitandine, ma da esse comprato e malconcio per adattarlo ai suoi disegni, contrasse grosso debito con il governo, e non trovandosi in attuale possibilità di soddisfarvi, esibì porzione di detta casa. Lo seppero i nostri e padre Lucio Isidoro a nome dell’infermo padre Giordana fece istanza perché a noi fosse data questa porzione di casa dal Le Clerc offerta al governo, esibendosi a rilasciargli in contraccambio la porzione che aveasi della casa attigua a Santa Cristina. Il progetto fu accettato e così il dì della SS. Trinità del 1830 entrarono i nostri in questa casa della Visitazione. Siccome essa fu stimata di un valore di 30 mila franchi meno della casa rilasciata, ricevettero questa somma in contanti”.

Con i soldi ricevuti come compenso del disavanzo furono sopraelevati gli edifici preesistenti che fronteggiano via XX Settembre. Avuta la casa, i missionari rimasero però senza Chiesa, che fu ceduta loro soltanto due anni dopo.

“Questo trattato per l’acquisto della casa fu concluso col governo – spiega il nostro manoscritto - senza l’intervento dell’arcivescovo per inavvertenza di padre Giordana. Poco perciò soddisfatto de’ nostri, l’arcivescovo porse benigno orecchio alla petizione di alcune dame che chiedeano non fosse l’annessa chiesetta tolta di mano all’attual sacerdote secolare che l’ufficiava. Quindi ci trovammo senza chiesa”.

A patrocinare la cessione della chiesa senza alcun onere fu, nel 1832, il card. Morozzo, vescovo di Novara.

Nel frattempo, morto padre Giordana, era diventato superiore della Casa di Torino il giovanissimo padre Marcantonio Durando, a cui sono legate le vicende della casa e della Provincia di Torino per un quarantennio.

L'epoca del padre Durando (1837 - 1880) 

Nel 1837, ad appena 36 anni, padre Durando fu nominato visitatore: carica che occupò per 43 anni ininterrotti, fino alla morte, nonostante che a più riprese chiedesse al superiore generale di essere esonerato.

Il compito più duro per padre Durando fu quello della riorganizzazione della Provincia di Lombardia, come allora veniva chiamata il gruppo di Case della Missione del Nord-Italia. Dopo la soppressione napoleonica, tutto era andato disperso: ciò che era rimasto – scrisse “è il catalogo asciutto e magro dei sacerdoti, chierici e fratelli della Provincia, e poi il sigillo”. Con il buon senso, la concretezza, la prudenza nei rapporti, la capacità di risparmiò e un’amministrazione ordinata, praticamente rifondò la Congregazione nel nord Italia. Si occupò dell’animazione vocazionale ed in pochi anni gli studenti in teologia crebbero notevolmente: nel 1845 erano 39, di cui 28 in teologia. I novizi erano 20. E solo i missionari sacerdoti ed i fratelli coadiutori tra il 1840 e il 1848 nella Casa di Torino erano 68.

Nella Casa della Missione ripresero vita due associazioni sacerdotali, già operanti nel ‘700 per opera dei Preti della Missione e poi decadute. Si trattava della Compagnia della Beatissima Vergine Immacolata o di San Tommaso d’Aquino e l’Associazione dei sacerdoti di san Francesco di Sales. In particolare la prima esercitò un notevole influsso nel sostegno teologico e spirituale del clero torinese: a dirigerla si alternavano sacerdoti secolari e missionari. San Leonardo Murialdo fu rettore nel 1849-50 (tra l’altro, venne ordinato sacerdote proprio nella Chiesa della Visitazione); poi furono rettori i padri Rinaldi e soprattutto padre Buroni Giuseppe, rinomato per la scienza filosofico-teologica; ed ancora don Agostino Richelmy, che poi diverrà arcivescovo di Torino (1897-1923). Vi parteciparono vari personaggi di spicco della Torino ottocentesca. Nel 1860 l’associazione contava circa 170 iscritti, tra cui una decina di vescovi ed il cardinale Filippo De Angelis, vescovo di Fermo, che viveva a domicilio coatto nella casa dei missionari a Torino. Nel 1850 si trovano ai primi posti negli elenchi dell’associazione mons. Luigi Fansoni e Lorenzo Gastaldi, entrambi arcivescovi di Torino, il primo dal 1832 al 1862 e il secondo dal 1871 al 1883. Nel 1854-55 spiccano i nomi di mons. Luigi Nazari di Calabiana, allora vescovo di Casale e futuro arcivescovo di Milano; mons. Renaldi, vescovo di Pinerolo; mons. Riccardi di Netro, vescovo di Savona e poi arcivescovo di Torino.

Quando le idee del 1848-49 suscitarono anche nella Congregazione delle spinte verso il libertarismo, ed una decina di confratelli lasciarono la congregazione, padre Durando mantenne un atteggiamento equilibrato che consolidò la vita della comunità. Nel 1855, nel pieno della sua responsabilità di visitatore inaugurò il Collegio Brignole-Sale per le missioni estere, con lo scopo di formare sacerdoti per le missioni ad gentes, realizzando in qualche modo l’antico sogno, mai realizzato, di partire per le missioni estere e in particolare per la Cina.

All’epoca della seconda soppressione (1866-67), riuscì ad impedire che la comunità naufragasse nuovamente. Questa seconda soppressione fu uno dei capitoli più amari nella vita del padre Durando. Gli agenti del demanio si presentarono, il giorno dell’Immacolata del 1866, alla Visitazione per stilare un accurato inventario della proprietà. Il primo aprile dell’anno successivo, i missionari ricevettero l’ordine di sgombero di tutti i locali entro otto giorni, tranne alcuni spazi lasciati per due o tre sacerdoti che dovevano continuare ad officiare la chiesa. Pochi mesi dopo, il 12 luglio 1867, con un nuovo decreto si tentò di privarli anche della Chiesa. Ma, su pressione esercitata da varie personalità ed in particolare dal Durando stesso presso il Governo attraverso il fratello Giacomo, almeno quest’ultima fu restituita nel giro di poche ore.

Il municipio diventato allora padrone di tutta la proprietà dell’ex-monastero della Visitazione, concesse ai missionari l’uso di due ali del fabbricato, quella su via XX Settembre (allora via della Provvidenza) e quella su via Arcivescovado, in cambio dell’assistenza che i missionari avrebbero prestato ai minorenni corrigendi del Riformatorio, che fu costituito sulla restante parte della proprietà (la parte ove le visitandine prima della soppressione gestivano un educandato). E così restò per tutto il tempo in cui padre Durando fu in vita. L’assistenza prestata ai corrigendi del Regio Patronato a partire dal 1868 divenne un’occasione di vero apostolato tra i giovani: in quest’opera si distinse fra tutti padre Luigi Bollo, che soleva dire: “Non mi sento mai così figlio di san Vincenzo, come quando sono in mezzo a questi disgraziati!”.

Nel suo generoso ministero di direzione spirituale, padre Durando attirò l’attenzione anche di nuove fondazioni che andavano costituendosi in Torino. L’arcivescovo, mons. Fransoni, gli affidò la direzione delle suore di san Giuseppe, appena arrivate in Italia. La marchesa di Barolo, che aveva fondato un monastero per il recupero di ragazze perdute, le Suore Penitenti di Santa Maddalena, lo volle come consigliere per la costituzione delle Regole e direttore dell’opera. Infine, contribuì alla redazione delle Regole delle suore di sant’Anna e divenne guida spirituale delle clarisse cappuccine del nuovo monastero di santa Chiara. Ma l’opera che lo caratterizza è la fondazione delle Suore Nazarene.

Come accade per le opere di Dio, senza averlo voluto, il 21 novembre 1865, festa della Presentazione di Maria, padre Durando potè affidare alla serva di Dio, Luigia Borgiotti, le prime postulanti della nuova Compagnia della Passione di Gesù Nazareno. Erano giovani che si erano rivolte a lui, perché, pur desiderose di consacrarsi a Dio, erano prive di alcuni requisiti canonici per entrare nelle comunità religiose. Egli diede loro il compito di servire i sofferenti come membra doloranti di Cristo crocifisso, andando ad assisterli a domicilio, giorno e notte. L’opera era innovativa ed originale, al punto che un canonico della cattedrale esclamò: “Se il padre Durando venisse a confessarsi da me, non mi sentirei in coscienza di assolverlo”. Eppure, grazie alla carità di queste suore, che seppero stare accanto ai morenti con gentilezza, discrezione e fede, avvennero svariate conversioni eccellenti come quella di Guido Gozzano, Felice Raccagni, Sofia Graf, Annie Vivanti.

In estrema sintesi si può dire che, con padre Durando, i Preti della Missione che nel ‘700 era soprattutto orientati verso le missioni popolari e la formazione del clero hanno allargato il loro orizzonte verso l’ambito della carità, che pure era un aspetto caratteristico della loro vocazione. Ciò si sviluppò soprattutto attraverso l’animazione delle Figlie della Carità e delle loro opere caritative. La preoccupazione verso i poveri fu l’altro risvolto della sua vocazione. Per questo, da poco eletto superiore (18 giugno 1831), si prese a cuore la diffusione delle Figlie della Carità in Piemonte. Il fatto gli costò anche le prime sofferenze come superiore. Il padre Giordana, infatti, gli aveva lasciato in eredità la direzione di un gruppetto di suore che erano sorte a livello locale a Montanaro e a Rivarolo sotto l’ispirazione delle Figlie della Carità di san Vincenzo e che, dopo la restaurazione, avevano ricominciato la loro vita di consacrazione e di servizio ai poveri sotto la direzione dei missionari di Torino. Esse avevano assunto abito e regole delle Figlie della Carità, e quindi, senza alcuna chiarificazione giuridica del loro stato, erano considerate di fatto appartenenti alla Compagnia delle Figlie della Carità. Quando però padre Durando nel 1833 da Rivarolo volle portare a Torino il loro noviziato e metterlo sotto la guida di Figlie della Carità venute dalla Francia, venne in evidenza l’incertezza giuridica della loro appartenenza. I parroci e gli amministratori dei due paesi si coalizzarono e si opposero al progetto, poiché volevano che le suore rimanessero a servizio dei bisogni locali. Il padre Durando non si scompose né si scoraggiò: puntò tutto sulle Figlie della Carità. Con le apparizioni della Medaglia Miracolosa del 1830 nella comunità stava per iniziare un vivace risveglio di vocazione al servizio dei poveri. L’intelligenza di padre Durando lo intuì. Diffuse l’associazione delle Figlie di Maria tra le giovani, e da essa nacquero nuove vocazioni: nel breve giro di dieci anni si aggregarono 260 suore e presero vita 20 fondazioni. Intanto il re Carlo Alberto, vedendo il modo diligente con cui le suore si assumevano le responsabilità di vari ospedali, sia quelli militari di Torino e Genova, sia quelli civili di Carignano, Castellamonte e San Giovanni in Torino, mise a loro disposizione nel 1837 il convento di san Salvario a Torino. Con l’aumento delle Figlie della Carità, Padre Durando dotò la città di Torino di una rete di centri di carità, chiamate Misericordie, il cui nome traduce il termine francese “Charité” con cui erano state chiamate le prime confraternite della carità fondate da san Vincenzo. Da questi centri le suore con le Dame di Carità partivano per il servizio a domicilio ed il soccorso dei poveri. La prima Misericordia fu fondata il 3 gennaio 1836 con l’apporto delle sorelle contessa Luigia Favria e la marchesa Costanza d’Azeglio insieme alla loro cognata Maria Luisa Alfieri, a cui si aggiunse la contessa di Carrù. Dal luogo dove nacque questo centro di carità fu chiamato Misericordia delle cascine: essa serviva i poveri delle parrocchie di san Filippo, san Francesco da Paola e altre parrocchie limitrofe. Attorno alle Misericordie si formarono svariate opere come i primi asili per i bambini poveri, laboratori per ragazze, orfanotrofi, ambulatori per soccorrere gli anziani. Le suore si diffusero a macchia d’olio sotto la sua guida in tutto il nord Italia ed in Sardegna. Nel 1855 ebbe persino il coraggio di inviarle nelle retrovie della guerra di Crimea, e nel 1859 nelle battaglie dell’Indipendenza italiana, per soccorrere i feriti. Per la loro opera di assistenza tra i malati e i poveri, insieme all’assunzione di svariate opere educative, alle Figlie della Carità si deve attribuire un ruolo di primo piano nello sviluppo del cattolicesimo sociale in Piemonte. Il loro esempio fu all’origine di altre congregazioni femminili, che all’epoca della prima industrializzazione in Italia assunsero i più svariati bisogni della gente. Si pensi solo alle suore del Cottolengo, che hanno in san Vincenzo il loro principale patrono.

Ed è soprattutto questa eredità che passerà a tutto il ‘900.

Il periodo dopo il padre Durando

Padre Durando aveva tentato varie volte di ricomprare tutta la casa della Missione, ma ogni tentativo andò a vuoto finché lui fu in vita. L’occasione si presentò fra il 1887 e il 1888. Avendo il Riformatorio bisogno di denaro liquido per pagare i debiti contratti fu messo in vendita l’ala del fabbricato su via XX Settembre. Il signor Bartolomeo Racca, proprietario della casa attigua n. 17, l’acquistò con l’ipoteca che garantiva conveniente alloggio ai missionari ufficianti la Chiesa della Visitazione. In realtà egli, e dopo di lui altri missionari a titolo di persona fisica, fecero da prestanome per raggirare le leggi di soppressione, dal momento che la Congregazione non era considerata ente giuridico. Dopo la stipula del Concordato tra lo Stato Italiano e la Santa Sede, la Provincia di Torino fu istituita con personalità giuridica nel 1934; e tutti i beni fino ad allora intestati a singoli confratelli, fra cui appunto la Casa della Missione di Torino, confluirono nel nuovo Ente Giuridico. Queste le vicende giuridiche della casa, ma l’attività della Casa di via XX Settembre continuò nello stile iniziato da padre Durando, cioè nella direzione delle missioni popolari, dell’animazione della carità e del servizio al clero, e in particolare della formazione dei nostri.

Tra il 1832 e il 1932 furono predicate dai missionari della Casa di Torino 830 missioni. Ed accanto alle missioni, come loro prolungamento, finché i missionari non subirono l’espropriazione di gran parte dell’edificio, vennero predicati corsi di esercizi spirituali per laici, totalmente gratuiti. Questo avvenne a Torino fino al 1866, e poi dopo le leggi eversive di soppressione con l’acquisto della Casa della Pace di Chieri, quest’opera venne trasferita là. Il massimo splendore di quest’opera si ebbe tra il 1927 e il 1932: in questi cinque anni parteciparono agli esercizi ben 2500 persone, tra professionisti, operai e contadini.

La Casa della Pace fu anche sede dei giovani studenti filosofi e teologi della comunità, che vennero trasferiti dalla Casa di Torino. I novizi e gli studenti di filosofia, con la costituzione della Casa di Chieri, furono inviati là nel 1874. Gli studenti di teologia continuarono a restare in via XX Settembre, finché non fu terminata la nuova costruzione del Seminario San Vincenzo a Valsalice nel 1936.

La continuazione della tradizione della cura del clero

Molti missionari che insegnavano teologia ai nostri studenti si prestavano anche per l’insegnamento delle scienze ecclesiastiche presso il Seminario di Torino. Fra questi meritano di essere ricordati alcuni.

Padre Giuseppe Buroni (1821-1885), piacentino, sostenitore e studioso del pensiero del Rosmini, apprezzato dall’arcivescovo Gastaldi che lo volle primo maestro della cattedra tomistica del seminario diocesano.

Padre Giovanni Morino, studioso di teologia morale ed autore di un diffusissimo testo di morale. Nel 1901 fu nominato visitatore della Provincia di Napoli.

Padre Giuseppe D’Isengard, nativo di La Spezia, (1844-1913), chiamato “enciclopedia vivente” per la molteplicità dei suoi interessi di studio che spaziavano dalle lingue antiche del greco e latino, alla matematica, alla dogmatica, alla morale, alla filosofia; aveva un gusto particolare per l’insegnamento della catechetica. Sulla materia pubblicò molti saggi sul periodico “Il Catechista Cattolico”. Fu il primo ad assumere la cattedra di Sacra Eloquenza voluta dal cardinal Richelmy nel Seminario di Torino, cui egli diede un’impronta catechetica. Fece parte della commissione per la redazione del Catechismo di Pio X e della riforma del Breviario Romano.

I fratelli Giovanni e Cesare Rinaldi. Il primo, Giovanni, con un’intuizione geniale riuscì a salvare la Compagnia delle Figlie della Carità dalla legge di soppressione del 1866, nella quale erano già state iscritte. Il secondo, Cesare, aveva studiato per diventare ingegnere, ma bocciato all’ultimo esame, rinunciò alla laurea e decise di farsi missionario. Facendo tesoro dei suoi studi progettò la casa di Casale e l’innalzamento dell’ultimo piano della Casa di Chieri, sulla cui cima fece apporre nel 1904 una grande statua dell’Immacolata, cui era molto devoto.

Padre Giovanni Boccardi (1859-1936), direttore dell’Osservatorio astronomico di Torino, e fondatore del nuovo Osservatorio di Pino Torinese; la sua attività fu molto apprezzata e le 432 pubblicazioni lo testimoniano.

Merita ricordare anche altri missionari che hanno onorato con la loro attività la casa di Torino. Padre Giacomo Saccheri, che fu dottore, insieme al Buroni e al Morino, presso la Facoltà teologica di Torino. Padre Emilio Parodi (1854-1916), diventato arcivescovo di Sassari e Vincenzo Tasso (1850-1919), visitatore e poi vescovo di Aosta. Padre Cornelio Cervia (1867-1930), professore di Dogmatica e Sacra Scrittura, direttore degli studenti e guida per ben 25 anni delle suore Nazarene, ed infine assistente generale a Parigi, dove morì. Guido Cocchi (1880-1966), che svolse la sua attività soprattutto a Genova; e nel 1947 divenne prima superiore e poi Visitatore fino al 1953, quando fu chiamato a Parigi per l’aggiornamento delle Regole della Congregazione; scrisse anche un apprezzato commento al Codice di Diritto Canonico in 8 volumi.

La continuazione dell'animazione della carità

Dopo l’inizio dato dal padre Durando durante il ‘900 continuarono a svilupparsi di molto le Compagnie della Carità o “Dame della Carità”, cui presero parte persone fra le più significative della nobiltà e della borghesia piemontese. Si diffusero in tantissime parrocchie di Torino: San Filippo, San Francesco da Paola, San Massimo, Madonna degli Angeli, San Carlo, San Salvario, Santa Teresa, Santi Angeli, SS. Annunziata, San Donato, San Gioachino, San Secondo, Santa Giulia, Salute, Metropolitana, Corpus Domini, Sant’Agostino, San Tommaso, Madonna di Campagna, Madonna della Pace, San Bernardino, San Gaetano, Lingotto, Lucento.

Le Dame della Carità sotto la guida di padre Riccardo Bona (1879-1957) molto si adoperarono nelle due guerre mondiali e negli anni dell’immigrazione interna dal sud al nord tra gli anni 1950 e 1960 in favore dei poveri. Padre Bona fu un uomo di eccezionale bontà, equilibrio e buon senso e amabilità. Fu l’uomo di fiducia del card. Maurilio Fossati (1930-1965) per provvedere aiuto alle vittime della guerra nella cosiddetta “Carità dell’Arcivescovo”, alla quale fece dono di tutte le sue energie, anche quelle della mente. Accanto a lui nella direzione del Volontariato Vincenziano va ricordato padre Nardino Ghidetti (1912-1988).

Un’opera significativa nell’ambito della carità è l’Opera Pia Lotteri. A fondarla nel 1874 fu appunto padre Francesco Lotteri, genovese di nascita, ma torinese d’adozione. L’opera da lui fondata fu chiamata Santi Angeli, e soltanto alla morte del fondatore le fu dato il suo nome. Si trovava nei pressi di via Villa della Regina, e grazie all’aiuto delle e dame e sotto la direzione delle Figlie della Carità si curò dei poveri della zona della Gran Madre e diede ospitalità a poverelle, orfanelle, donne convalescenti dimesse dagli ospedali e senza dimora.

La guida spirituale alle Figlie della Carità, essendo intrecciata con l’animazione della carità verso i poveri, è sempre stata una caratteristica di questa casa, in cui risiede il loro direttore. Di questa animazione merita ricordare la figure di Padre Boasso Michele (1905-1988), Paolo Provera (1909-2002), autore di fortunati libri di formazione spirituale, tra cui Diamoci a Dio e Vivi la tua vocazione; Padre Mario Mordiglia (1917-2002), stimato professore di diritto e di morale, che ha ricoperto quasi fino alla fine della vita il ruolo di giudice presso il Tribunale Ecclesiastico di Torino.

Nell’ambito della carità, ancora oggi, legata all’incarico del Visitatore, vi è la presidenza dell’Opera Pia Viretti che, trasformatasi nel corso del tempo, accoglie bambini e mamme in stato di difficoltà segnalate dai servizi sociale del comune di Torino o dal Tribunale dei Minori.

L'orizzonte missionario

Sotto il provincialato di padre Filippo Traverso (1921-1931) molti missionari partirono per le missioni ad gentes del Brasile, dell’Abissinia e della Cina. Fra questi Giovanni Allara, Ernesto Rossi, Giuseppe Asinelli. Nel 1920 ai missionari della Provincia di Torino, in collaborazione con le altre provincie italiane, fu affidato il Vicariato apostolico di Kian, nella provincia del Kiangsi, di cui fu primo vescovo mons. Nicola Ciceri, e dopo di lui mons. Gaetano Mignani. Parecchi missionari partirono per la Cina, e fra questi merita ricordare il genovese padre Giacomo Anselmo, ucciso nel 1933. E con lui i padri Edoardo Barbato, Nicola Nuzzi, Antonio Capozzi, Giovanni Fraccaro, Ottavio Purino. Dopo la guerra altri missionari vi andarono: padre Ciarga Cirillo, Villotti Guerino, fratel Peressutti ed altri. Quando con la rivoluzione comunista, nel 1951, i missionari furono espulsi dalla Cina, padre Giuseppe Archetto (1910-1994), che era stato in Cina ed fino alla fine della sua vita si è speso con ardore per le missioni, alimentò il progetto di un’altra missione. Così nel 1962, proprio dalla Chiesa della Visitazione partirono i primi quattro missionari (padre Floriano Strapazzon, Giuseppe Razzu, Luigi Dusio e Stanta Giovanni) per la missione del Madagascar, dove i missionari diedero vita alla diocesi di Ihosy, di cui primo vescovo, morto prematuramente nel 1970, fu mons. Luigi Dusio. E’ stata, ed è ancora oggi, uno dei segni più significativi della tensione missionaria della Provincia di Torino. Pur nel ridimensionamento delle persone (ad oggi sono rimasti 12 missionari), dovuto alla diminuzione delle vocazioni, i missionari hanno voluto porre un segno distintivo della loro tensione missionaria: hanno ceduto al clero diocesano le parrocchie residenziali, ed hanno riservato per sé il lavoro nelle brousses più abbandonate e difficili da raggiungere.

La casa di Torino è stata anche sede di varie confraternite.

Il 17 marzo 1893 venne eretta la confraternita della Santa Agonia. Questa arciconfraternita era stata istitutita il 15 dicembre 1861 ad opera di padre Antonio Ippolito Nicolle. Sua finalità era di consolare Cristo per i peccati del mondo e consolare il Papa fatto oggetto di odio. Il primo iscritto fu il card. De Bonald, arcivescovo di Parigi; ed il secondo, padre Étienne, superiore generale dei Preti della Missione. Animatori a Torino furono padre Emilio Parodi (1854- 1916), morto vescovo di Sassari; e Pietro Asinelli (1877-1953), visitatore e superiore a Torino. L’associazione arrivò ad avere circa centocinquantamila associati sparsi in tutta Italia. Aveva una funzione mensile di riparazione ed un bollettino bimestrale, per tenere collegati gli associati.

Il 20 giugno 1922 si fondò la Pia Unione del Sacro Cuore per mantener vivo il ricordo delle apparizioni del Sacro Cuore avvenute nella cappella della Passione a suor Benigna Gojoz (1615-1692), suora conversa della Visitazione. Questa pia unione si prefiggeva di unire spiritualmente nella devozione al Sacro Cuore le telefoniste della città ed altre impiegate.

Nel 1930 per ricordare il centenario delle apparizioni della Medaglia Miracolosa si attivò nella Chiesa della Visitazione l’Associazione della Medaglia Miracolosa. Ancora oggi, il 27 di ogni mese, si svolge la Novena Perpetua. A questa celebrazione partecipano numerosi devoti da tutta la città per la meditazione e la preghiera.

A partire dagli anni 1970 continua ad operare fino ad oggi l’Associazione San Pio X. E’ una particolare Conferenza di San Vincenzo che si occupa del sostegno delle monache di clausura.

Un’altra particolare opera di carità dipendente dalla Casa della Missione è l’Opera Pia Viretti, di cui il Visitatore è presidente e, attualmente, l’economo provinciale il segretario. L’opera fu istituita dalla signorina Giuseppina Viretti, che consigliata da Padre Durando, con testamento del 1875 dotò l’opera di tutti i suoi beni. Per oltre cent’anni l’opera, affidata alle cure delle Suore Nazarene, ha accolto ragazze senza famiglia. Con il venir meno di questa finalità, intorno agli anni ’90, l’opera è stata trasformata in una duplice attività: parte dell’immobile è adibito a servizio di ragazzi handicappati; e parte accoglie madri con bambini affidati dai servizi sociali.

In occasione del tricentenario della morte di san Vincenzo, mentre era visitatore padre Mordiglia, tra il 1960 e il 1964 si ricostruì dalle fondamenta la nuova Casa della Missione e si consolidò la Chiesa. Il disegno è opera dell’ingegner Carlo Ruscazio. L’edificio fu costruito dall’impresa Perrone. Fu inaugurata il 28 novembre 1964, alla presenza del padre generale William Slattery. I lavori furono seguiti da padre Giuseppe Tamagnone, economo provinciale. La casa fu dotata di un salone di riunione e di una cappella per le varie associazioni ed in particolare per seguire le Dame della Carità. La casa abitata dai missionari fu ridotta per il diminuito numero dei medesimi. Parte è stata affittata per poter ottenere una rendita per l’autonomia economica della comunità.

In occasione del 350° anniversario di presenza dei missionari a Torino sono stati messi in ordine gli archivi; ed è stata un’ampia sala di ricordi per recuperare gli oggetti preziosi della storia della comunità; è in fase avanzata la messa in ordine e la catalogazione della Biblioteca Vincenziana e soprattutto è stata restaurata la Chiesa della Visitazione (rimando).

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