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Padre Giovanni Battista Manzella (1855 - 1937)
 

Giovanni Battista Manzella è nato il 21 gennaio del 1855 a Soncino, in provincia di Cremona, da Carlo Luigi e Laura Zanardi. Nella sua casa abitò una mistica, la beata Stefana Quinzani (1457-1530). Era secondo di tre fratelli, Luigi, il maggiore, ed Ezechiele, il terzo, che divenne anch’egli sacerdote. Ebbe altri fratelli morti in tenera età: Maddalena, Battistina, Pietro, Giosué, Maria, Giuditta.

Fu battezzato il giorno dopo la nascita nella chiesa di san Giacomo. Il 18 ottobre 1863 ricevette la cresima. Dal 1861 al 1870 frequentò a Soncino le scuole elementari e tecniche. Terminati gli studi lavorò col padre Carlo come materassaio, prima in paese, poi a Castello Brianza, nei pressi di Lecco, dove la famiglia si trasferì nel 1875. Fece poi il commesso in un negozio di ferramenta a Cremona di proprietà del signor Bernardo Cima e presso il negozio della signora Linda Vignolo Spreafico. A Cremona partecipò alla Conferenza maschile della San Vincenzo.

 
In questa attività di commesso sentì nascere la vocazione: “Andremo a spezzare le catene dei peccatori” – si ripeteva. La vocazione, nata dall’ambiente religioso della famiglia, si fortificò nella casa della signora Linda, donna di pietà e sua benefattrice.

A 29 anni entrò nell’Istituto Villoresi di Monza, ove iniziò gli studi seminaristici. Su invito del suo direttore spirituale chiese di essere ammesso nella Congregazione della Missione ed il 21 novembre del 1887 entrò in Congregazione alla Casa della Pace di Chieri, dove due anni dopo, emise i voti. Il 18 settembre 1892 ricette gli ordini minori. Poco dopo, il 24 settembre, il suddiaconato e il 17 dicembre il diaconato. Divenne sacerdote a Torino il 25 febbraio del 1893. Aveva 38 anni.

Nei primi sette anni di sacerdozio fu applicato alla formazione dei giovani. Il 4 aprile 1893 fu nominato direttore della Scuola Apostolica di Scarnafigi; e l’11 novembre dello stesso anno fu inviato direttore dei novizi a Chieri. Dal 17 gennaio 1898 al settembre 1899 predicò missioni popolari a Como; poi fu trasferito, il 7 settembre 1899, come direttore dei chierici ed economo nel seminario di Casale. Qui, i seminaristi compresero la sua santità di vita già molto evidente. Su questo periodo vi è una lettera molto significativa di padre Manzella scritta il 3 ottobre 1922 a padre Gualco:

“Lei dice non essere compreso. Oh! se sapesse in quante cose io non fui compreso a Chieri. Fino al punto di prepararmi alla morte. Tale era il peso dell’obbedienza. Meno male che l’anno stesso fui cambiato a Como e mi rimisi subito. Perché non vedere la mano di Dio in questi malintesi? Io dovetti lasciare Leontina, anima dalla quale ricavai tanto bene, ricavai la perfetta indifferenza in tutto, l’obbedienza illimitata, il fervore nella preghiera e molte virtù pratiche. Ora si è scelto un altro direttore. Lasciata essa son finite tutte le ciarle. Eppure non veniva che pochi minuti una volta al mese e anche meno. Il signor Nicola che pure amava Leontina e la famiglia e la visitava a casa, tuttavia non voleva in pratica che io avessi relazione. Ne feci sacrificio. Dio penserà a farmi santo diversamente... I religiosi in cielo sono tra i martiri. … Nostro Signore Gesù Cristo fu limitato nella sua volontà in tutto. Le sue mani potevan far tante cose, e fece il falegname. Poteva girare il mondo a istruire, si restrinse alla Giudea e Galilea. Poteva far molti miracoli e non ne fece che pochi ecc. Facciamo così anche noi”.

Nel novembre del 1900, a 45 anni, fu trasferito in Sardegna dove rimase per il resto della sua vita e dove fu chiamato ben presto: l’Apostolo della Sardegna. Il 14 novembre approdò a Golfo Aranci per sostituire il padre De Amicis. Fino al 1905 ricoprì l’incarico di direttore spirituale del Seminario di Sassari e, contemporaneamente, predicò missioni popolari e corsi di esercizi spirituali al clero e alle religiose. Dal 1903 diresse il Convitto Ecclesiastico per chierici poveri, da lui stesso fondato presso la Casa della Missione. Il visitatore apostolico, il domenicano Pio Tommaso Boggiani, in seguito cardinale e arcivescovo di Genova, lasciò nel settembre 1904 una relazione assai positiva circa il suo operato in favore dei chierici. In questi anni collaborò alla fondazione dell’Istituto Gesù Bambino di Sassari.

 “Il nome di questa istituzione è un programma, e racchiude la storia dei suoi inizi. Le Dame di Carità di Sassari, guidate da suor Agostina Raitieri, nelle loro visite a domicilio ai poveri incontravano facilmente delle ragazze che, nel linguaggio del tempo, venivano chiamate “pericolanti” per lo stato di completo abbandono in cui venivano trovate. Anche padre Manzella, un giorno del 1903, segnalò loro di aver incontrato una bambina quasi completamente nuda sul limitare di una casa del centro storico di Sassari. Le Dame vi si recarono, e di bambine ne trovarono tre. Esposto il caso alla superiora dell’Ospizio san Vincenzo, suor Caterina Ragazzo, si cominciò a progettare di costituire un istituto per le bambine abbandonate. Le prime bambine vennero ospitate provvisoriamente in un locale del comune, utilizzato all’epoca per il ricovero degli animali sequestrati. Questo locale, poco più di una stalla, come la grotta di Betlemme, ispirò il nome che venne poi dato all’istituto: Rifugio Gesù Bambino per le bimbe abbandonate. Con un primo intervento di riordino della struttura si ottenne un dormitorio con il recupero di letti di fortuna e, in un altro vano, con delle tende, si crearono un piccolo laboratorio ed un refettorio. Ma il crescente numero delle bambine richiese il trasferimento in un caseggiato vicino, successivamente ampliato grazie alla cessione, da parte del comune, di un ampio terreno intorno alla struttura. Nel 1905 il locale fu inaugurato: c’erano 22 bambine. Si formò il primo consiglio direttivo composto da 15 persone, fra cui di diritto l’arcivescovo di Sassari, allora mons. Emilio Parodi, e il Superiore della Missione, allora padre David Landi. La presidente Momina Dettori si prodigò per recuperare i mezzi di sussistenza.
Pubblicizzò l’Opera sui giornali del tempo La Nuova Sardegna,
L’Armonia Sarda e La Libertà, che accettarono volentieri di pubblicare le richieste di aiuto. Con geniali iniziative, si cercava di dare consistenza all’istituto. Per esempio, si ottennero gratuitamente piantine già innestate per costituire un mandorleto nei prati antistanti la casa. Si impiantò un alveare per la produzione del miele. Lasciti, legati e donazioni si moltiplicarono. Anche gli ortolani, i pescivendoli e i macellai decisero di donare gratuitamente generi alimentari”.

Dal 1906 al 1912 padre Manzella ricoprì l’ufficio di superiore della casa della Missione di Sassari. E in questo periodo soffrì notevoli incomprensioni che sopportò in silenzio per imitare il silenzio di Gesù davanti ai suoi accusatori, come appare da questa lettera a padre Biamino del 21 novembre 1936:

“C’è qui fratel Monteverde il quale viene ogni tanto in camera a ricordarmi i torti che mi han fatto anticamente. Questo caro fratello vede torti dappertutto, lo fa per l’amore che mi porta. Io avevo messo tutto in eterna dimenticanza; non mi son difeso allora non mi vorrei difendere adesso; però mi vien voglia di farlo non per difendermi, perché chi mi ha condannato è già con Dio; non per la speranza di essere ancora superiore: a 82 anni non si fanno più superiori, sicuro che la mia difesa non è che a titolo di sfogo naturale, diciamo una parola in confidenza al caro signor Biamino. Dietro alle tante cose che sento da fatel Monteverde dirò: che la casa a Sassari iniziò il suo sviluppo sotto il mio superiorato … Non si facevano che poche missioni all’anno; nel corso dell’anno i missionari erano sempre in casa; si trovava il tempo di fare la passeggiata tutti i giorni. Venuto io al governo tutto l’anno eravamo in missione. E quando non si aveva compagno, non si lasciava la missione per questo; cercavo qualche buon religioso che veniva con noi; io feci missioni col padre Bonaventura cappuccino, mentre il signor Valentino ne fece molte col padre Ilario, pure cappuccino. Il visitatore in quel tempo lasciò questo ricordo: non prendere troppo lavoro. E nella visita successiva il visitatore lascia quest’altro avviso: Non bisogna lasciar le missioni. Un superiore, più tardi, leggendo l’uno e l’altro avviso, si meravigliò … Come? Qui si dice una cosa e qui al rovescio. Io risposi: Cambiato superiore. Uno riceveva tutto, l’altro si spaventava quando aveva domande di missioni o di esercizi. Una volta sento che il superiore, leggendo una lettera, esclamava: Come si fa! Impossibile! Poveri noi! Io finsi di non sapere che cosa era avvenuto e chiesi: Cosa c’è? Qualche disgrazia? Rispose: E’ il vescovo di Nuoro che vuole gli esercizi … Io lasciavo ai confratelli di sviluppare il loro genio. Il signore Genta dava il saggio alla fine dell’anno e metteva in moto tutta la città; suor Gotteland metteva a sua disposizione migliaia di lire per i premi. In quel tempo eravamo salutati da tutti i giovani studenti, ci facevan di cappello, mentre prima eravamo insultati. Il signore Valentino ce lo vedeva nelle missioni e nella fondazione della Carità? Vada avanti e faccia del bene. Io ricordo che qualche volta soffrivo il dolor di ventre, durante la meditazione della mattina, per non dare scandalo a uscire durante la meditazione; e poi si avrà (sic) detto che usciva facilmente da meditazione. In quel frattempo venne a Sassari il signor Siccardi. Essendo superiore mi apersi con lui circa il modo con cui mi trattavano i confratelli. Ed egli mi disse: Vada subito a Torino perché là non la pensano così; lui, sapendo che a Torino si scriveva contro di me. … Io guardai bene dal difendere il mio superiorato, ho lasciato che andassero le cose da sé, e da sé andarono, e mi tolsero da superiore, senza esserlo mai più, mentre gli altri, se tolti di qui, sono mandati di là, sempre, però, superiori, (semel abbas, semper abbas): devo averne fatte delle grandi e grosse per trattarmi così!!! Mentre fu proprio in quel tempo che si sviluppò l’opera delle missioni, la fondazione delle Dame della Carità (a proposito delle Dame della Carità fui accusato anche di quello). Rendiconto delle Dame della Carità al signor Damé in ricreazione a Torino; ed egli, guardandomi dolcemente in faccia, se lo mise nascostamente in tasca per non dare scandalo ai confratelli: era un delitto quest’opera e servì come punto di accusa. Oggi le fanno tutti; miserabile chi è stato il primo. Lei mi dirà: Perché non si è difeso per tempo? Rispondo: La regola di non scusarsi è dei seminaristi e deve essere anche dei grandi. Senta: ero a Chieri. Il signor Tasso mi chiama e mi dà una solenne sgridata perché io avevo dato delle penitenze corporali ad una suora di un certo villaggio, che io non avevo mai visto. Io non conoscevo né la suora né il villaggio; mi presi in pace la sgridata e me ne andai. Nelle conferenze ogni tanto saltava fuori con quei missionari che davano penitenze alle suore ecc. Dopo un anno e mezzo il signor Tasso mi disse in tono di rimprovero: Perché non ha detto che lei non sapeva niente di quella suora? Un altro giorno mi chiama con i tocchi, io ritardo di qualche minuto. Mi dice: Perché non è venuto prima? Risposi: Un’altra volta verrò subito. Si difenda! Mi dice. Diedi la ragione, la trovò giusta e approvò il ritardo. Potevan fare così anche i superiori, avrei detto le mie ragioni, e non so chi sarebbe stato condannato. Ne senta un’altra. Tornato come semplice soggetto nella mia casa mi trovo al tavolino; entra il mio successore e si dà a frugare di qua e di là: lo lasciai fare. Trova nella scansia dei denari, li prende, li butta sul tavolino dicendo: Lei ha denari dappertutto. Io fremeva di questo modo indegno di trattare, non risposi parola. Se mi avesse domandato di chi sono, io avrei detto: Questi sono della Propagazione della Fede; questi della Santa Infanzia; questi sono la cassa dei Luigini; questi altri sono delle Figlie di Maria. Non dissi nulla. Pensi come vuole. Chissà cosa ha scritto a Torino e manco a Torino si chiede ragione. Si accusa, si butta nel fango un pover’uomo. Non son nel fango: è perfezione non scusarsi. Io ho trovato anime che imitano Gesù alla colonna della flagellazione, anche alla coronazione di spine; ma ho trovato ben pochi che imitano Gesù davanti ai tribunali. Jesus autem tacebat. Ha taciuto e fu condannato, io tacqui e fui condannato. Non ho però perduto la battaglia; l’han perduta quelli che han calunniato. Che altro devo dire? Al principio della scorsa settimana venne a me da Pattada (un paese oltre Ozieri) una giovane che non parlava e non camminava. Le diedi la benedizione ed imposi la medaglia. Tornò al suo paese come venne, appena a casa si trovò guarita, e salta. Tutto il paese è corso a quella casa per congratularsi. Al domani due giovani del paese, nella speranza di avere la grazia, vengono in vetturetta a Sassari; l’una e l’altra han male alle gambe, non possono trar passo, son sotto cura, han medicine da prendere, il prete al paese le (sic) porta la comunione in casa. Dò la benedizione, impongo la medaglia, tornano al loro paese come erano venute, e non so se il giorno dopo o lo stesso giorno, l’una e l’altra son guarite in un istante. Tutto il paese in fermento. Al domani trenta o quaranta di Pattada vengono a chiedere benedizione e medaglia e tutti i giorni ce ne sono di nuovi …”.

Il suo apostolato andò intensificandosi: fondò numerose Conferenze della Carità, che nel 1913 avevano raggiunto il numero di 80. Rendendosi conto dell’arroganza della cultura laicista, che portava la povera gente a perdere la fede, affrontò contradditori con i “liberi pensatori” del circolo Giordano Bruno di Tempio e con altri anticlericali, sempre pronto a condannare l’errore, ma ad entrare in dialogo con l’errante. Mentre la massoneria e il socialismo andavano affermandosi ed osteggiando la presenza cattolica nella società, padre Manzella,
La Libertà. Era il marzo 1910. Nello stesso anno collaborò alla Casa per Cronici e Derelitti (Casa della Divina Provvidenza) a Sassari.

Lo stile profetico impiegato nell’impiantare opere di carità lo si può vedere nell’opera più geniale promossa da padre Manzella. In occasione dei festeggiamenti della fondazione della Compagnia delle Dame della Carità nel 1909, padre Manzella prese la parola: “Una signora cagliaritana, venuta a rappresentare alle vostre feste l’associazione della sua città, diceva: “Il miglior ricordo del cinquantenario è un’opera di beneficenza”. Ed io ne propongo tre: un asilo per abbandonati, la protezione della giovane, le case operaie. Fra i tre, di assoluta necessità, è l’asilo dei poveri abbandonati. Quanti infatti sono i bambini, gli adulti ed i vecchi che passano la notte dove il caso li conduce, perché non hanno un tetto, un misero tetto sotto cui rifugiarsi, trovare protezione dalle intemperie ed un freno che li trattenga dalla china rapida dell’immoralità? E’ doloroso pensare che mentre tutti gli animali hanno un nido, un cespuglio o una tana, tanti poverelli non hanno dove passare la notte”. Allora padre Manzella era superiore della Casa della Missione e direttore delle Dame della Carità. In quanto tale egli incoraggiò le Dame ad occuparsi di questa istituzione, che stentava a partire. Si legge nel libro delle adunanze al 10 maggio 1912: “Si apre la discussione per i tanti ostacoli che sorgono per l’erigenda Casa dei Cronici e il signor Manzella, viste le difficoltà consiglia una novena all’Immacolata. Raccomanda che dalle opere buone sia bandita ogni principio umano e che il tarlo della vanagloria non le corrompa, ma tutto sia fatto con purità d’intenzione ossia per la maggior gloria di Dio”. L’opera iniziò il 14 novembre 1910, prima in una piccola abitazione in via Diego Pinna per ricoverarvi una vecchia donna abbandonata di nome Giovanna Farina, e qualche mese più tardi prendendo in affitto alcuni locali in via delle Conce. Quivi furono accolte donne vecchie ed abbandonate, tra i casi più pietosi che le Dame incontravano nelle loro visite ai poveri. Tra il 1910 e il 1916, acquisita un’area fabbricabile di 4500 mq. nel quartiere Sant’Agostino, il complesso andò arricchendosi di nuovi fabbricati. Essendosi dimostrata inadeguata l’assistenza saltuaria offerta dalle Figlie di Maria alle ricoverate, nel 1918 giunsero le prime tre Figlie della Carità, provenienti prima dall’orfanotrofio, poi dall’ospedale civile. Il 1° aprile 1919 la casa ricevette una quarta suora e, con la nomina di suor Aresi come suor servente, l’opera venne eretta canonicamente. ”

Nel 1914 collaborò con padre Borgna, rettore del Seminario di Sassari alla fondazione dell’Opera delle Vocazioni. E, più tardi, dotò quest’opera di un bollettino, il Pastor Bonus, di cui fu direttore responsabile. Nel 1916 fondò l‘orfanotrofio di Bonorva. Nel 1918 ideò ad Anela la Società della Pietà, con cui contrastò la piaga di “su corruttu”, che causava gravi danni fisici e psicologici nelle donne. Nel 1923 collaborò alla fondazione dell’Istituto delle Croniche di Oschiri e, nello stesso anno, diede vita al mensile La Carità, su cui ha lasciato scritto tutta la sua passione missionaria e caritativa fino al 1935. Il periodico faceva da collegamento a tutta l’opera caritativa che aveva animato in quegli anni. Sotto questo fervore di carità, la Sardegna per due volte, negli anni 1923 e 1925, venne proclamata dal Padre Generale Isola Vincenziana. Nel 1928 le Conferenze della Carità avevano raggiunto il numero di circa 200. Dal 16 al 20 aprile 1932 fu presente a Roma per il Convegno Nazionale delle Dame della Carità. Per oltre 20 anni, dal 1905 al 1926, da settembre fino a maggio-giugno era impegnato nella predicazione delle missioni popolari. Dal 1924 al 1926 curò anche l’assistenza spirituale ai 1500 operai del Cantiere della diga sul Coghinas, rimanendo con loro in occasione del Natale o dopo Pasqua per il precetto pasquale. Ma anche a Sassari era sempre in movimento per i poveri; quando non andava lui a cercarli nelle casupole del centro storico, erano loro che lo assediavano in Seminario, alla Casa della Missione oppure alla Casa Madre delle Suore del Getsemani.

Per molto tempo, avendo incontrato due anime ricche di virtù e di intuito soprannaturale, Leontina Sotgiu e Angela Marongiu, coltivò l’idea di una fondazione femminile, per mantenere molte anime consacrate al servizio del popolo in Sardegna, senza che dovessero andare in continente per realizzare la loro vocazione di vita attiva. Con Angela Marongiu diede vita all’Istituto delle Suore del Getsemani, che assorbirono molte delle sue energie negli ultimi dieci anni della vita. Nel 1926 stese la prima redazione delle Regole dell’Istituto. Il 5 giugno 1927 mons. Cleto Cassani benedì la Casa Santa Teresa del Bambin Gesù, dove le prime tre suore Angela Marongiu, Veronica Delogu e Speranza Sechi iniziarono la vita comune. L’istituto, sia pur lentamente, andò sviluppandosi. Il 5 novembre 1932 ebbe inizio il primo asilo infantile a Sassari nella casa madre. Nel 1933 venne acquistato un terreno per un’opera a Lu Bagnu. Nel 1935 venne aperto un asilo a Torralba. Già dal 1934 le suore facevano la catechesi negli stazzi di Bancali e della Nurra, moltiplicandosi poi negli ultimi anni di vita di padre Manzella ed dopo la sua morte. Il 23 gennaio 1936 morì madre Angela, ispiratrice del carisma del Getsemani. E nello stesso anno fu eletta madre Maria Cocco, che restò alla guida della Comunità per 46 anni.

Dal 1924 al 1932, padre Manzella ricoprì nuovamente la carica di Direttore spirituale del Seminario di Sassari. La sua salute che non era mai stata florida, andò peggiorando e per circa due mesi, nel 1930, rimase ricoverato in ospedale in gravi condizioni.

Padre Manzella morì a Sassari il 23 ottobre 1937. Ai suoi funerali imponenti, celebrati nel duomo di Sassari, mons. Mazzotti lo definì ”l’incarnazione della misericordia, della bontà e della carità”. Nel 1941 madre Maria Cocco ottenne dal prefetto di Sassari di trasferire la salma di padre Manzella nella cripta della chiesa del SS. Sacramento presso la Casa Madre delle Suore del Getsemani. Sempre nel 1941, poiché la fama di santità di padre Manzella andava sempre più diffondendosi, l’episcopato sardo fece petizione al visitatore di Torino per l’introduzione della causa di beatificazione. Il 25 aprile 1949 mons. Mazzotti iniziò il processo diocesano, che venne chiuso il 3 novembre 1964. A distanza di 70 anni dalla morte, tale convinzione resta immutata nei sardi e, soprattutto, nei numerosissimi devoti che ogni 23 ottobre, giorno della morte, si assiepano nella chiesa, che ne custodisce le spoglie.

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