Professore di filosofia e direttore degli studenti
Ordinato sacerdote (20 marzo 1943), padre Berghin fu nominato, appena ventitreenne, professore di filosofia al Seminario san Vincenzo. Era il 25 agosto 1943. Egli prese d’impegno questo compito e, accorgendosi che lo studio della filosofia era standardizzato in formule e ragionamenti poco attraenti per gli studenti, per di più - come dicevamo - su testi di lingua latina, iniziò a scrivere su piccoli fogli, con una scrittura minutissima, gli appunti di filosofia per le sue lezioni. L’editore Marietti, venuto a conoscenza di questi manoscritti, ebbe l’idea di pubblicarli. Fu così che, nei quindici anni del suo insegnamento, anno dopo anno, vennero alla luce gli Elementi di filosofia in sette volumi, che gli richiesero una grande fatica, ma nello stesso tempo lo formarono nel cammino dello spirito come risulta dalle annotazioni spirituali che puntualmente redigeva in quegli anni: “La mia vita fin qui mi ha insegnato la difficile lezio ne, amara ma preziosa: io non sono capace a nulla. Ora mi pare di saperla ed è tanto importante tenerla a mente che sono sicuro di tornarla ad imparare ogni volta che la perdessi di vista. Ci pensa il Signore!” (ottobre 1945). Nel novembre 1946, questa lezione il Signore doveva avergliela impartita in modo più pesante del solito se i suoi studenti sentirono il bisogno di scrivergli una lettera per incoraggiarlo. Lettera che lui ha custodito gelosamente fino alla morte, tra le cose più importanti della sua vita. Gli scrissero dunque gli studenti: “E’ con un po’ di titubanza che ci presentiamo a lei oggi per questa via eccezionale: ma l’abbiamo giudicato necessario per assicurarla della nostra comprensione e gratitudine per l’opera che lei svolge tra noi. Il male che più lacera l’animo è l’incomprensione: sacrificare tempo, operosità, ideali, la vita stessa a un fine, e vedere il proprio lavoro misconosciuto, è una pena troppo grande, anche se non è il plauso degli uomini che si cerca: così grande che sarebbe capace di spegnere ogni entusiasmo e scoraggiare il cuore più robusto. Per questo, noi, con semplicità, le sveliamo oggi il nostro animo e il nostro pensiero: non perché crediamo esserle ciò necessario (sappiamo infatti quale sia il fine del suo lavoro), ma perché stimiamo esserlo doveroso per noi. Sappia lei comprendere: molte volte, troppe forse, noi ci mostriamo incoerenti a quello che qui diciamo; ma, e vogliamo marcarlo bene, ciò non è per cattivo animo o per disprezzo delle sue fatiche: sarebbe una crudeltà troppo grande, e lei non può crederci capaci di tanto. Noi “sinceramente” stimiamo e valutiamo (perché conosciamo) il suo lavoro e i suoi sacrifici; sappiamo che lei si consuma e spende tutto se stesso per la nostra formazione, e la ringraziamo con pieno cuore; se poi a fatti non sappiamo sempre esternare questi nostri sentimenti, compatisca la nostra debolezza e leggerezza di giovani”. Questi giovani studenti avevano allora 19/20 anni. Egli ne divenne poi anche il direttore nell’estate del 1951 fino al 1956, quando gli studenti di filosofia furono trasferiti dal Seminario san Vincenzo a Chieri (settembre 1955). L’anno successivo (9 settembre 1956) fu nominato direttore del Seminario Interno e vi restò fino al settembre del 1957 quando, terminato l’anno di Seminario Interno, fu trasferito come superiore a Sassari nella Casa della Missione.
Il suo metodo educativo
La sua missione di direttore fu caratterizzata dalla finezza d’animo e dal desiderio di formare giovani preparati ad evangelizzare nel tempo della modernità che iniziava a farsi strada nella cultura italiana del dopoguerra. Il primo orientamento del suo dirigere i giovani era quello dell’inculcare una ricerca personale e responsabile, accettando la sfida critica della ragione interrogante. In questo agiva spontaneo il suo animus filosofico, poiché sentiva imperioso il bisogno di una sana critica, cioè di un’apprendimento del senso della vita non per sentito dire, ma attraverso la ricerca personale. Lo inculcava agli altri, ma lo esigeva anche da sé, come ha lasciato scritto in una nota senza data: “Devo badare di non lasciarmi cristallizzare nella mentalità scolastica, limitatissima. Devo cercare di vedere i problemi soprattutto nella loro portata vitale. In seguito dovrò studiare più per problemi che per trattati, ma già ora devo sempre domandarmi che valore e quali conseguenze ha un problema nella vita reale per non ridurre l’insegnamento filosofico ad algebra: se il problema non diventa urgente e vivo per me, è quasi inutile che lo studi e ne tratti: resterà per tutti una vuota (e noiosa!) speculazione. Devo ricordarmi sempre che la filosofia deve risolvere il problema della vita”. Questo bisogno di critica autentica molto spesso venne interpretata in chiave “sovversiva”. Ma lui non era un un novatore antitradizionalista, piuttosto era un lettore attento e critico proprio della tradizione per mantenerla nella sua vera funzione di essere la custode del senso autentico delle cose. Il secondo orientamento è contenuto in un breve scritto, senza data ma chiaramente risalente a questo periodo, dal titolo: Riflessioni sull’ufficio di direttore. In esso vi si legge: “I nostri giovani hanno bisogno di respiro, e cioè: 1) non reggono ad un regime di rigidità formalistica: … al primo posto la formazione spirituale, perché non c’è nulla di peggiore della tristezza per la vita di pietà; poi lo studio, il quale “rende” se c’è lo slancio, altrimenti è come trascinarsi un peso morto. I missionari del passato (come li descrivono gli Annali) saranno stati santi; i nostri giovani non hanno meno buona volontà, ma non si santificano più in quel modo, ma in un altro modo: occorre gioia, serenità, apertura, allora si potrà ottenere rigore a tempo e luogo. 2) Mi sembra che i nostri giovani abbiano bisogno di iniziativa, cioè di fare qualcosa di bene (poveri, catechismi e cose simili) che diano loro occupazione e senso di essere utili. Sono troppi gli anni in cui devono occuparsi di cose che non entusiasmano, solo pensando al futuro. Molti non reggono e finiscono per intristirsi, diventando teste piccole, preoccupati di beghe fratesche. 3) I nostri giovani hanno bisogno di fiducia. In loro ho sempre trovato buona volontà, e anche molta, ma tutto cade se si sentono sospettati. Si devono seguire, ma in modo aperto e cordiale. Si deve avere veramente fiducia e farglielo sentire, e per lo più si aprono da soli. Non sempre, è vero: nascono anche degli inconvenienti, però molto minori che nel caso contrario. 4) Devo seguirli uno per uno. Più colloqui personali. A costo di lasciare qualunque altro lavoro. A costo anche di essere indiscreto: interrogarli, parlare delle loro cose (studio, vocazione, pietà), incoraggiarli, correggere le idee. Questi colloqui fanno sempre del bene, più che le conferenze pubbliche”. Tutto ciò rivela un animo aperto che è andato a scontrarsi con atteggiamenti chiusi e obsoleti. Anche perché non aveva un carattere remissivo e, quando si sentiva nel vero, lo sosteneva con ardore. E’ così che il 1957 rappresenta una cesura nella sua vita. E’ l’anno in cui lascia l’insegnamento. E deve averlo patito non poco. Aveva allora solo 37 anni.
Il canto del cigno nell’insegnamento filosofico
Nella primavera di quel 1957, su impulso della Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi, si tenne a Roma un convegno su Filosofia e formazione ecclesiastica, cui furono invitati i professori di filosofia dei seminari d’Italia. Fra questi fu invitato come relatore anche padre Berghin. Svolse il seguente tema: Impostazione viva e concreta dei singoli trattati: i trattati di critica, metafisica generale e teodicea. In questa relazione in premessa lamentava “l’assenza di una didattica per l’insegnamento della filosofia teoretica, … perché altro è il sapere ed altro è l’insegnare: … ed il professore deve improvvisare il modo di insegnare, con la conseguenza che talvolta la scuola è un capolavoro di scientia, ma un peccatum artis”. Subito dopo sostiene che “o la filosofia è ricerca sentita di tutto l’uomo o non esiste”. Il problema dell’insegnamento nei seminari infatti – nello svolgimento del suo argomentare – dipendeva da tre fattori: il primo che i professori non riescono a suscitare veramente il problema filosofico, ossia la tensione interiore per la ricerca della verità; secondo perché i seminaristi vivono in un ambiente “monocolore” senza uno scontro/incontro con altre posizioni di pensiero; terzo, perché il professore non ricerca più e nella scuola semplicemente “espone”: “allora lo studente riceve passivamente, incolla nella mente solo formule”. Insomma in questa relazione emerge la vivacità filosofica di Padre Berghin, che è poi la vivacità stessa della sua vita. La conferenza fu apprezzata sul momento, ma in seguito (forse all’epoca della sua pubblicazione nel 1960) ricevette un’ammonizione dal card. Pizzardo. Egli sorrideva ricordando queste disavventure. E le raccontava con quel distacco che è caratteristico di chi ha la chiara percezione che l’unica fama che conta è quella davanti a Dio. In ogni caso, l’impegno dell’insegnamento e della composizione dei testi di filosofia, l’attenzione agli studenti lo prostrarono fisicamente e mentalmente. Quest’aspetto è poco conosciuto, poiché egli lo seppe nascondere nel silenzio dell’abbandono in Dio. Tuttavia risulta dai suoi diari la fatica di questo lavoro e, a un certo momento, lo colse il timore che tutta la sua fatica intellettuale non avesse grande utilità. Scriveva nel 1955: “Il sentimento dominante è un senso di scoramento profondo, di sfiducia quasi assoluta in qualunque risultato, unito ad un desiderio vivo di poter fare qualcosa: desiderio però che è soltanto punta di spina, bruciatura nella carne viva. La radice è un esaurimento nervoso già molto progredito, dovuto agli sforzi passati ed alla delusione presente. Non riesco più né a far scuola neppure dopo molta preparazione (anzi spesso, quando mi preparo di più, è ancora peggio), né a risolvere in modo soddisfacente una qualche questione di studio. L’oppressione per lo sforzo intellettuale è spesso gravissima”. Questo fu il “signor Berghin” - come allora si diceva - nei primi anni del suo sacerdozio come professore di filosofia e come direttore degli studenti. Ma ormai egli aveva lasciato alle sue spalle l’insegnamento. Gli si apriva un nuovo orizzonte, che egli si era preparato con queste parole: “A che serve la nostra scienza se il popolo non sa e per questo perde la fede?”.
Superiore in varie case, evangelizzatore a Cagliari
Nel 1957 fu destinato alla Casa di Sassari come superiore: qui diede impulso alla Scuola Apostolica e riuscì a costruire un’ala nuova della casa con lo scopo della predicazione degli esercizi spirituali ai sacerdoti. Allo scadere dei nove anni, fu inviato a lavorare nella parrocchia nascente della periferia più povera di Cagliari, a Bingia Matta. Da quel momento, salvo l’intervallo di alcuni anni in cui i superiori lo inviarono a Torino e a Como, “sposò” questo quartiere in via di formazione, dove non esisteva ancora la chiesa. Ivi partecipò con molto entusiasmo alla creazione della comunità cristiana, trasfondendo tutta la sua ricchezza intellettuale e spirituale. Quand’era ancora impegnato nell’insegnamento filosofico aveva scritto: “Quanto è vano e inutile ogni ragionamento filosofico-teologico per raggiungere il Dio vivente: più è profondo e intricato, e più stanca la mente e inaridisce il cuore. Solo lo sguardo di Dio può darmi lumi nella sua verità e vita”. Questo sogno di comunicare una fede viva ha potuto realizzarlo, a metà della vita, per quasi trent’anni, in due tornate, nella parrocchia di Cagliari (1967-1977; 1991-2010), facendosi amico di tanta gente ed in particolare dei ragazzetti del quartiere. Si immerse neiproblemi delle famiglie, godendo di poter insegnare il catechismo ai piccoli e di dare decoro alle celebrazioni liturgiche con il canto. Fu anche direttore spirituale dell’incipiente Seminario Regionale Teologico della Sardegna (1971-1972). Nel 1977 fu superiore per un triennio al Collegio di Cagliari, poi trasferito come superiore al Seminario san Vincenzo (1982-1988) e ancora come superiore a Como (1988-1991). Queste sue peripezie, sovente determinate dalla sua inquietudine nel vedere che le cose non andavano come dovevano andare, hanno però un centro che le comandava: egli al fondo si sentiva un ricercatore della verità del vangelo e desiderava comunicarla ai piccoli e ai poveri. Per questo la sua casa ideale e il luogo del suo approdo fu la Parrocchia della Medaglia Miracolosa di Cagliari.
Tratti delLa sua figura
“Padre Berghin era molto stimato negli ambienti dell’Università Cattolica, in particolare dai professori Sofia Vanni Rovighi e Bontadini” – mi ha raccontato padre Vaglia. Proprio per questa sua padronanza intellettuale, all’esterno poteva essere percepito come persona sicura. In realtà era troppo intelligente per non sentire la fragilità e la contingenza della vita, che tutto sommato è la sorgente di ogni sapienza. Credo che questo sentimento loavesse inscritto intimamente nel suo animo fin da ragazzo. Da anziano raccontava con gusto di essere nato settimino e che i suoi genitori, per paura che non sopravvivesse, lo misero in una gerla, avvolto in una coperta al caldo della paglia, per portarlo subito al battesimo nella parrocchiale di Viù, essendo nato nella frazione diPolpresa. Fu infatti battezzato il giorno dopo la nascita, il 6 maggio 1920. I primi fatti della vita a volte incidono fortemente sui nostri vissuti e lasciano delle tracce profonde nel carattere. Così padre Berghin aveva un forte senso della fragilità delle cose e della propria debolezza. Era una persona estremamente sensibile e squisitamente aperta con tutti coloro che sentiva sinceri, mentre diventava diffidente e sferzante con le sue battute, ovunque sentisse odore di formalismo o di opportunismo. Aveva una mente “cartesiana”: gli piacevano le “idee chiare e distinte”, e per questo aveva un carattere esigente e puntiglioso, non tanto per l’affermazione di sé, ma per saldare il debito con la verità. Per questa sua “mente matematica” amava riportare le cose nella loro giusta misura: ci godeva un mondo a smitizzare certi linguaggi retorici o troppo azigogolati che sentiva nel costume ecclesiastico e mondano. Era un semplice, ma di quelli intelligenti. Da anziano, è venuta fuori la sua anima più profonda di essere innamorato di Dio. Ma con quel senso di equilibrio che gli impedirà sempre di usare termini esagerati o troppo sentimentali. La vicinanza con Dio sarà la sua compagnia che lo aiuterà a restare sempre sereno e tranquillo, anche di fronte alla solitudine che ha vissuto negli ultimi anni nei ricoveri di Terramaini e di Buddusò.
Maestro di scalata
Padre Berghin era nato elle valli di Lanzo ed aveva una grande passione per la montagna. Attraverso di essa coinvolse i suoi studenti nella gioia delle scalate. Fu lui ad aprire tutte le vie per raggiungere le cime più alte delle Alpi Graie: il Rocciamelone (mt. 3538), la Lera, la Cima Croce Rossa (mt. 3566), la Punta Arnas (mt. 3560), l’Uja Bessanese (mt. 3604), l’Albaron di Savoia (mt. 3637) e l’Uja Ciamarella (mt. 3637). Cime affrontate allora con mezzi primitivi, ma con il gusto della conquista e del creare gruppo. Questa propensione verso l’alto e l’arrischiato erano nel suo carattere. In fondo per lui la tensione al trascendente e il rishio della libertà erano gli stessi ingredienti dell’esistenza, ed erano propedeutici ad assimilare le doti che avrebbero aiutato i futuri missionari ad esercitare il sacerdozio. Credo che per lui fosse un modo esistenziale per aiutare i giovani a tradurre concretamente quello che insegnava sul senso della ricerca, della fiducia reciproca e dell’attenzione nell’impegnarsi a studiare. Al riguardo si ha di lui il ricordo di una meticolosità nel rispettare le condizioni della montagna, verso cui non ci si doveva esporre più del necessario. La montagna era per lui “maestra muta, che creava discepoli silenziosi”, come diceva Goethe. Lo ricordiamo come maestro esigente. Pieno di umile tensione nella ricerca della verità, che cercava di non confondere mai con la propria opinione. Il senso del trascendente era la sua vera passione; e l’umile dedizione per coinvolgere tutti sulla strada della Verità il suo impegno. Da anziano, il suo animo mite unito ad arguzia faceva di lui un amico sincero. Con lui si stava bene ed era bello ascoltare i suoi aforismi, sempre piccanti e luminosi. |